«Se siete qui per la danza vi sbagliate», accoglie così il pubblico Bassam Abou Diab, giovane coreografo libanese, al suo spettacolo Under the Flesh, in programma nei giorni scorsi al festival Danza Urbana a Bologna. Bassam unisce danza contemporanea, narrazione e tanta ironia. «Il mio legame con le bombe è iniziato nel 1993 durante la guerra, ero piccolo quando ho incontrato la prima bomba. È stato tutto rapidissimo, il corpo ha fatto un movimento incosciente, si è arreso. L’onda d’urto mi ha fatto balzare via, mi sono ritrovato a terra. Così il pericolo era lontano e io ero vivo». Il danzatore mima i movimenti per schivare gli ordigni, striscia a terra, salta, si rialza. Ad accompagnarlo le percussioni di Samah Tarabay che simulano gli scoppi. «Tutto ciò che mi riguardava nella vita era collegato alla guerra, nel 1996 un’altra. Le bombe erano strane, fredde, la seconda tecnica che ho sviluppato è stata arrendermi subito, lasciare il corpo a terra, sfruttare l’onda d’urto e con una capriola spostarmi lontano dal pericolo e ritrovarmi vivo. Con gli aiuti della Ue ci arrivavano in dono scarpe, giochi e nuove bombe. Nel 2000 un altro conflitto, ero cresciuto e conoscevo meglio la civiltà, le tradizioni, il folklore, la cultura. Le bombe erano chimiche e giganti, era necessaria una nuova tecnica. Ho messo il folklore nel movimento, ed è così che le ho sconfitte. Nel 2006 la guerra più dolorosa per me. Più difficile della morte è quando è attorno a te e non puoi esserne parte. Ma scusate, la guerra è molto più bella di così. Sono stato troppo drammatico. Sono una persona normale che è diventata un Superman originale arabo e grazie a quell’esperienza sono ancora qui. Chi vuole diventare immortale dovrebbe venire con me in Siria, Libia, Iraq, Yemen e fare un’esperienza diretta con le bombe e scoprire la propria tecnica».

22vis1hamdi_nanni

 

Bassam affronta il tema della sopravvivenza e del pericolo, dei movimenti del corpo e delle sue strategie in chiave leggera. «L’idea – dice, nasce dalla mia memoria di bambino. In Libano non c’era tempo per la vita, c’era sempre la guerra, quando finiva ne ricominciava un’altra e ogni volta che finiva sembrava non accadesse niente. In realtà accadevano molte cose, molte persone erano morte, le città distrutte. Ho vissuto quattro guerre e ho pensato a cosa potessi fare in quanto artista. Mi sono chiesto perché danzo e mi muovo in questo modo e non in un altro. Sono attore di teatro, uso la narrazione, la danza contemporanea e la dabka libanese. Con tutto questo ho provato a costruire qualcosa sul tema dell’identità. L’impatto della guerra ha reso i nostri corpi e la nostra danza così. La tradizione che emerge dalla mia danza è una memoria registrata e incamerata nel mio fisico, non una tecnica di danza. Il mio spirito affonda nella dabka che è nella mia memoria». La performance di Bassam Abou Diab fa parte del Focus Young Arab Choreographers che ha visto anche la struggente interpretazione del tunisino Hamdi Dridi con Tu meur(s) de terre (gioco di parole francese fra il termine tumore e il verbo morire), un omaggio alla scomparsa del padre.

Un’occasione rara e preziosa vedere in Italia la danza contemporanea di autori provenienti da paesi arabi. Dridi spiega come tradizione e innovazione convivano nel suo lavoro e nella sua tecnica, un tema comune ai quattro artisti presenti a Bologna, declinati in maniera differente, ma con molte affinità. «Non ho uno stile preciso», dice,«vengo dall’hip hop, ho studiato il contemporaneo, ho frequentato una scuola a Tunisi, e per molti anni ho studiato in Francia. Dopo anni di pratica sono tornato sulla danza tradizionale del mio paese, per attraversarla e capire cosa possa cambiare nel mio corpo. Non ho un solo linguaggio, ma tanti che insieme creano un miscuglio. Indago il quotidiano, i gesti dell’operaio, il corpo del lavoratore, non inserisco necessariamente dei passi del folklore. Nei miei lavori ci sono firme, segni, del mio e di altri paesi. Non assomiglio ad altri coreografi europei, mi sono ispirato a loro per non essere uguale. Dopo le basi imparate in Europa sono tornato per rendere omaggio all’uomo e alla donna tunisina: all’operaio, alla gente per strada, le persone invisibili. Ho cominciato con questo assolo creato per mio padre, ho trovato una gestualità e ho capito che c’è un luogo da verbalizzare, da portare in scena quando viaggio, in quanto artista nomade, cittadino del mondo e tunisino».

«Con gli altri artisti del focus c’è in comune la spiritualità e la resistenza. L’Egitto, il Libano, la Palestina e la Tunisia, sono paesi che hanno vissuto e vivono sempre una resistenza. Donne e uomini in quanto artisti sono già un manifesto, ci vuole coraggio per esserlo. Parliamo tutti arabo, ma ci capiamo anche attraverso un’altra lingua: la danza. Non lo so definire esattamente, ma è qualcosa di prezioso oltre alla lingua parlata. In Tunisia esiste lo status sociale di danzatore, e di artista riconosciuto dallo Stato, ma sogno che si arrivi a danzare tranquillamente come a parlare e ad esprimersi, sogno una Tunisia uguale all’Italia alla Francia, anche migliore con un centro coreografico, una scuola di formazione, festival. Sogno di non dover andare o restare in un paese europeo per danzare, ma poterlo fare nel mio».

Altro protagonista il giovane egiziano Mounir Saeed con What about Dante, piéce ispirata alla cantica dell’Inferno che incontra il sufismo, una danza che affonda le radici nella spiritualità e in cui voce e movimento creano un’unica melodia. Questo assolo ha ottenuto il terzo premio all’International Solo Dance Theater Festival di Stoccarda nel 2016. «L’idea è arrivata dalla Divina Commedia di Dante scritta e tradotta in arabo», racconta Mounir, «ho cercato di unire la civiltà islamica e quella di Dante. Credo che la Divina Commedia sia una civiltà, non solo un testo. Dante ha cambiato la lingua italiana, ha avuto una così grande influenza sulla vostra cultura che ho voluto creare qualcosa che unisse la storia dell’Islam e la storia di Dante. Leggendo l’Inferno ho realizzato che quello che racconta è ciò che accade oggi. Il movimento sufi crea una linea fra la cristianità e l’Islam, così ho cercato di mescolare la mia voce agli inni cristiani e alle voci orientali». Il quarto artista, Sharaf DarZaid palestinese di Ramallah, è forse quello più intriso di tradizione. To Be si rifà alla dabka, danza folkloristica, popolare. Artista e manager culturale, danzatore e coreografo, ha iniziato a praticare alle feste di matrimonio. La danza per lui è una questione d’identità.

«Come giovane palestinese che vive in una comunità che soffre diverse forme di oppressione», spiega, «ho due opzioni: resistere o mantenere l’oppressione. Ma resistere come? Prima ho dovuto capire chi è l’oppressore e chi sono io e come trovare me stesso e la mia identità. Ho capito cosa significhi interiorizzare l’oppressione. Sono nato durante la prima Intifada nel 1987 e così ho vissuto i primi sette anni della mia vita, con i miei genitori per strada o in prigione. Non avevo un posto sicuro. Quando sono cresciuto c’è stata la seconda Intifada, ho perso uno dei miei migliori amici e quello è stato il punto di svolta. Mi sono chiesto se lanciare pietre o fare altro. Da quel momento ho cominciato a danzare, usavo la danza come arte di resistenza, uno strumento per liberare la mente e cogliere la mia cultura, salvarla, e insegnarla ad altre generazioni per mantenerla viva. Ho cominciato con il folklore, poi sono andato più a fondo con la ricerca della mia identità, sul movimento, le storie. Mi chiedo come nel 2017 io possa usare il folklore per raccontarmi. L’identità è in continua evoluzione. Non voglio parlare di me con il linguaggio europeo della danza contemporanea, ho delle radici profonde e il folklore a cui ispirarmi e portare sul palco anche fuori dal paese. Questa è Resistenza. Insegno danza folkloristica, che è parte della nostra identità, alle nuove generazioni. Porto con me tutte le storie che conosco per trasmettere alla gente che in Palestina abbiamo anche l’arte, e che essere sotto occupazione non significa non essere creativi».

Dopo aver toccato Bologna, anche Potenza e Anghiari. Bassam Abou Diab chiude la tournée a La Mama Umbria a Roma ai Teatri di Vetro dal 21 al 23 insieme a Hamdi Dridi e Mounir Saeed. Sempre nella capitale gli artisti terranno anche dei seminari in collaborazione con l’Accademia Nazionale di Danza.