Le situazioni di crisi, a modo loro, testimoniano non solo dell’eccezione di cui sono diretta espressione ma anche delle condizioni pregresse in cui si trovano le società che sono ora soggiogate dall’emergenza. Ne sono un punto di sintesi, in buona sostanza, raccogliendo aspetti di lungo periodo dell’autobiografia della nazione. In tali casi, la comunicazione pubblica, e ancora di più quella politica, fotografa lo scambio di fondo che intercorre tra istituzioni pubbliche (come anche di quelle private) e comunità nazionale. È una cartina di tornasole dell’idea e della prassi stessa di cittadinanza. Non quella sancita sul versante formale dalla giurisprudenza consolidata ma, sul piano reale, dall’agire concreto di coloro che sono titolari effettivi della sovranità e della potestà d’imperio. Partendo da un presupposto di fondo, ossia che le persistenti discrasie del presente, ad esempio gli innumerevoli colli di bottiglia «burocratici», non sono intoppi occasionali e neanche ostacoli di circostanza, da superare quindi con il solo buonsenso, bensì il prodotto di una chiara volontà strutturatasi ed espressasi nel tempo. La quale si fonda sulla diffidenza tra amministrazioni e cittadini così come sulla volontà, da parte delle prime, di trattenere per sé ampi ambiti di discrezionalità, per coltivare le proprie prerogative, anche a pregiudizio dell’interesse collettivo.

FATTI TANTO PIÙ GRAVI per via del momento di straordinarietà che continuiamo a vivere. Con l’aggravante che, d’ora innanzi, dovremo misurarci sempre più spesso con la cronicizzazione dello stato di emergenza, ovvero non solo con il suo plausibile ripetersi ma anche con la pressione del sommarsi e dello stratificarsi di ritardi, affaticamenti, indebolimenti che si riflettono pesantemente sul tessuto collettivo, non solo economico ma anche e soprattutto civile. Peraltro, nell’incertezza del diritto si genera una voragine dentro la quale rischiano di precipitare persone e relazioni, aspettative e residue fiducie.

QUALCHE QUADRO di riferimento, tra i diversi possibili, può meglio aiutare a comprendere l’ordine del discorso rispetto a questi ultimi mesi, al netto dei catastrofismi salottieri (la «morte della democrazia») ma anche degli ottimismi beoti (le «opportunità del cambiamento»). La compiaciuta caccia ai runner, a singoli persone momentaneamente sedute su una panchina (del tutto isolate e inermi), ai «furbetti della quarantena» (ossia anche a coloro che acquistano un quotidiano: molti di noi potrebbero essere tra questi), con elicotteri, pattuglioni misti, droni e cos’altro – il tutto a telecamere riunite – non ha nulla a che fare con il controllo del rispetto della quarantena bensì con una crescente voglia di trovare untori sui quali scaricare – in maniera quasi esorcizzante – una responsabilità per nulla loro.

È divenuta inquietante poiché tradisce una neanche troppo implicita volontà di fare passare il messaggio che la residua libertà è una variabile dipendente dall’altrui disposizione d’animo a fare delazione. Così come dall’arbitrio assunto da una parte delle forze dell’ordine. Non per un loro proprio calcolo politico ma per quella significativa condizione che si crea, in assenza di chiarezza di diritto e di diritti, quando a coprire il vuoto sono chiamati, quasi fossero dispensatori di certezze, coloro che nelle circostanze del momento hanno la legittimazione del ricorso alla forza dalla loro parte. Senz’altro un arbitrio ma anche un gioco di rifrazioni, poiché si tratta della simulazione di una funzione, quella di «proteggere» una comunità che continua ad aggrapparsi all’immunizzazione totale, ossia all’assoluta assenza di rischio, come precondizione per mantenere le proprie relazioni sociali. E con essa, alla speculazione abituale che vi si accompagna a braccetto, quella della paura collettiva e del suo eventuale utilizzo politico.

ALLA RESPONSABILITÀ individuale le forze di governo sembrano preferire le virtù dell’ubbidienza. Il richiamo ripetuto al «comportarsi bene», in questo quadro, non è il rimando al senso di responsabilità individuale, alla cognizione dei limiti della propria libertà individuale laddove essa si inscriva nei rapporti collettivi, ma ad un sistema di obblighi e deferenze che attribuisce da subito agli individui una qualche «colpa» per le difficoltà vigenti, a prescindere. Si inscrive in questa logica l’asfissiante discrasia tra ripetute dichiarazioni pubbliche sulla necessità dello snellimento delle procedure amministrative e poi la loro costanza di fatto. Oppure, cosa non meno grave, l’evidente incapacità di costruire un piano nazionale di gestione dei rientri alle attività produttive, di riapertura graduata, di riattivazione di una parte del circuito sociale, a fronte di un drammatico conflitto in corso tra regioni ed esecutivo e al vuoto sulla logistica dei trasporti.

DUE MESI per non venire a capo dei più elementari presidi igienico-sanitari, come oramai le angosciosamente famose «mascherine», che non sono solo uno strumento di tutela ma – oramai – anche un simbolo totemico del tempo che stiamo vivendo. Il tempo dell’isolamento, della separazione, della equiparazione tra contatto e contagio, dell’anonimato e dell’ipertrofia della cattività domestica che da sé dovrebbe preservarci dai rischi dei rapporti occasionali. Una costruzione simbolica, oltre che materiale, la quale in alcuni passaggi ricorda la panicosità che si era diffusa, in alcune parti della popolazione, quando l’Aids era intesa come un’epidemia vera e propria, derivante proprio dalle «cattive condotte» (quelle dei tossicodipendenti, degli omosessuali, dei promiscui).

Per essere chiari: non è da mettersi in discussione la messa in opera di precisi protocolli di condotta, da indicare con nettezza alla popolazione. Semmai, a consegnarci il segno dei tempi è proprio il fatto che la mancanza di essi sia coperta da una rinnovata angoscia da controllo sociale. Così come due altri fenomeni paralleli: l’esasperante centralità mediatica dei tecnici e degli «esperti» (che non fanno informazione scientifica ma intrattenimento, loro malgrado), invitati non solo per «fare capire» il senso delle cose ai cittadini, ridotti a telespettatori domestici dei talk show, ma anche per creare alibi all’eventuale impasse politica; la riduzione della dialettica tra settore pubblico ed economia privata a nuove forme di potenziale assistenzialismo, utile sia a coprire la rovinosa gestione della sanità pubblica in questi ultimi vent’anni, sia la subordinazione della collettività a quelle che non sono spinte all’emancipazione ma alla costituzione e alla replicazione, nei fatti, di nuove forme di assoggettamento. Due forme di dipendenza dentro un’unica razionalità, quella del paternalismo di Stato. Ciò di cui stiamo ragionando non sono colli di bottiglia occasionali ma vincoli strutturali, che rispondono ad una logica che è parte stessa del modo in cui storicamente in Italia è stata declinata la sovranità all’interno dei confini nazionali, nei confronti della collettività. Ovvero, ne rappresentano l’ultimo anello di una lunga catena, con una sua sgradevole costanza e coerenza.

Il governo non sembra credere nelle competenze di autogestione della società italiana, sostituendo ad esse comunicazioni alimentate da una miscela di calcolato paternalismo, rimando all’eccezionalità, misurati allarmismi, enfatici annunci e moderato ottimismo di circostanza. Lo stesso linguaggio dell’emergenza («guerra», «bazooka», «task force» ma anche «piano Marshall» e cos’altro, termini che hanno temporaneamente sostituito i parassitari anglicismi aziendalistici, mutuati da una certa concezione aziendalistica della vita sociale), nel tentativo di rendere conto dello stato delle cose con figure retoriche ad immediato impatto simbolico, certifica da sé una distanza che, nella percezione comune, si traduce in diffidenza. Ciò di cui stiamo parlando non è questione di salute pubblica ma di perdurante sottocultura del sospetto, dove ci si rivolge ad un popolo-bambino che deve essere in qualche modo guidato poiché altrimenti cieco e irresponsabile. È l’altra faccia della retorica dell’«eroismo» e del «sacrificio», due virtù che sono riconosciute solo se gli individui si immolano in una sorta di martirio laico.

L’ECCEZIONALISMO e l’emergenzialismo fieramente esibiti, e con essi la ricerca di «trofei», sono chiodi sul coperchio della bara in cui seppellire la giustizia sociale. Il paternalismo di Stato non è un progetto politico ma il reciproco inverso del dettato costituzionale. È una subcultura che raccoglie contemporaneamente singole azioni occasionali, una più generale propensione all’inazione sui grandi piani della progettazione, la deresponsabilizzazione sistematica come stile di relazione e la sollecitazione di dipendenze. Il problema non è solo quello di un’Italia che sta vivendo un tempo stregato, dove le vite sembrano sospese dentro il perimetro della quarantena, ma di una Europa che si va frantumando, ricostruendo nuove egemonie, pesanti ristrutturazioni sociali, al pari di una spiccata propensione all’incentivare le diseguaglianze sociali, culturali ed economiche. La pandemia rischia di essere il vettore di queste dinamiche. Ed anche da questo riscontro bisognerebbe ripartire, per non essere risucchiati nel vortice del declino tecno-populistico.