Dopo tre anni di training, Salwa Ahmad al Hussein, 40 anni, è riuscita a ricavare uno studio per praticare lo shiatsu nella sua modesta casa nel campo palestinese di Burj Shemali, tre chilometri da Tiro, a sud del Libano. Adesso fa trattamenti shiatsu ad amiche e conoscenti del campo e così riesce a contribuire al reddito familiare.

Era questo uno degli obiettivi del corso «Shiatsu al femminile» organizzato dall’associazione italiana Ulaia che da anni lavora nel campo e che ha coinvolto nel progetto, iniziato nel 2013 con la volontaria Pina Natale, l’Accademia Italiana Shiatsu-Do.

Dal 2014 le formatrici dell’Accademia hanno tenuto periodicamente corsi intensivi di shiatsu a Burj Shemali, nella sede dell’associazione locale Houlha, e continuano a seguire a distanza (via Skype) i progressi delle shiatsuka coinvolte nel progetto presentato il 27 e il 28 ottobre all’American University di Beirut, all’11° Conferenza annuale sulla Salute mentale.

Salwa mostra con orgoglio la stanza dove esegue i trattamenti e il volto le si apre in un sorriso radioso quando ripete che le piace praticare lo shiatsu, aggiungendo sempre che ha «l’ambizione di farlo diventare un lavoro». Ha sei figli e ha vissuto tutta la sua vita nel campo, un fazzoletto di terra di circa un km quadrato abitato da quasi 23mila persone.

Un groviglio di stradine su cui penzolano viluppi di cavi elettrici, da cui le donne escono di rado. In poche lavorano, se non da stagionali nell’agricoltura o come domestiche. Qui si vive in spazi risicati e bisogna confrontarsi quotidianamente con la mancanza di servizi e opportunità. Quelle professionali sono davvero poche in Libano per i palestinesi che, considerati ancora rifugiati dopo 70 anni dal loro arrivo nel paese, non possono accedere a una lunga lista di professioni.

In questa lista, però, non c’è lo shiatsu, spiega Olga Ambrosanio di Ulaia: «La crescita professionale che sta imprimendo l’Accademia Italiana Shiatsu-Do può portare queste donne a sviluppare un piccolo lavoro. Ai palestinesi sono vietate tantissime professioni, ma lo shiatsu non è tra queste. Magari ci troveremo qualche donna che riesce a tirare fuori un piccolo reddito e anche una grande soddisfazione nell’uscire dall’ambito familiare e proporsi come donna lavoratrice».

È l’obiettivo che accomuna la maggior parte delle partecipanti al progetto. Asma Mahmud al Jumaa, 36 anni, bibliotecaria di Houlha e allieva del corso, spera che riescano a lavorare in altri campi palestinesi (ce ne sono 12 in Libano, ndr): ««L’idea dello shiatsu ha creato opportunità di lavoro, oltre a farci conoscere una cosa nuova. Adesso abbiamo i materassini (tatami) portatili che ci permettono di lavorare fuori dal centro. Abbiamo fatto i trattamenti in Beit Atfal Assumoud (la Ong palestinese con cui collabora Ulaia, ndr) su alcune donne e sono stati molto apprezzati».

Asma si occupa di organizzare gli incontri settimanali per la pratica. Il sabato mattina una quindicina di donne si riuniscono nella sede dell’associazione e praticano i trattamenti a vicenda. L’apprendimento dello shiatsu richiede un esercizio costante: bisogna memorizzare i kata, la sequenza di manipolazioni, e acquisire la giusta pressione delle dita. E le allieve hanno dimostrato costanza e impegno.

Adriana Asara, responsabile Formazione dell’Accademia italiana Shiatus-Do, è stata quattro volte a Burj Shemali ed è molto soddisfatta dei risultati raggiunti: «Il progetto sta avendo una continuità eccezionale: una quindicina di donne sono maturate notevolmente, sono in grado di fare ottimi trattamenti, non soltanto in ambito familiare, ma anche all’esterno. È stato importante per noi riuscire a condividere questa disciplina con queste donne in una situazione complessa come quella del campo. Shiatsu significa contatto e all’inizio abbiamo riscontrato una grande difficoltà nel contatto e nella relazione, ma adesso le cose stanno cambiando, c’è più apertura».

Abbattere le resistenze iniziali ha comportato un duro lavoro d’informazione e un costante dialogo. Molte donne che partecipano al progetto erano restie, pensavano che si trattasse di massaggi e che si sarebbero dovute spogliare e usare creme e olii. Una cosa inammissibile nella loro cultura e che, ad ogni modo, sarebbe stato quasi impossibile trasformare in un lavoro.

Ma adesso, sebbene alla presenza di estranei continuino a indossare il velo, la tensione si è allentata e sono tutte orgogliose di avere imparato una disciplina che, oltre a risvolti professionali, grazie ai suoi effetti rilassanti e riequilibranti può avere ricadute positive su una popolazione che ha difficoltà di accesso alla sanità. «Nel campo c’è un solo ospedale, spesso con un solo medico, quasi mai donna – fa notare Ambrosanio – È osservando questa situazione che mi è venuta l’idea dello shiatsu».

«Nessuno fa questi trattamenti a Burj Shemali – racconta Hola, 33 anni, studentessa di Sociologia – Ci sono molte persone, donne, che soffrono per dolori cronici e non possono uscire dal campo, perché i mariti non gli darebbero mai il permesso di sottoporsi a trattamenti eseguiti da estranei, figuriamoci da uomini. Noi possiamo essere utili. Io, per esempio, faccio i trattamenti a casa ai miei familiari».

Dalla pratica in famiglia, otto donne sono state ammesse alla pratica certificata, cioè su estranei, nel centro di Assomoud e nel vicino campo palestinese di El Buss, nell’ambito del Sour Community Disability Program. E lì si è aperta anche la possibilità di un progetto con i bambini. Inoltre, a fine mese alcune delle allieve, le migliori, otterranno il certificato di idoneità.

I risultati raggiunti da alcune allieve stanno spronando altre donne a imparare la disciplina. «Mi piace imparare lo shiatsu – dice Amal Subhi al Atrash, 45 anni, tra le ultime a essersi unita al corso – È una cosa buona, può dare sollievo a chi non può permettersi terapie e sto seguendo il corso perché voglio fare i trattamenti sulle donne che hanno avuto ictus o infarti».