Il Metropolitan Museum è un mondo intero, nella maniera peculiare e raccolta in cui lo sono tutte le grandi istituzioni culturali. Più di altre, però, l’imponente edificio stretto fra la Quinta e Central Park ospita una rete articolata di dipartimenti e centri di ricerca che ne animano la vita intensa e il programma fitto, con ritmi concertati secondo interessi divaganti. Una prova dell’autonomia vitale dei singoli settori è l’agenda clamorosa del Costume Institute, il quale ha inanellato hit recenti fra cui le monografiche su Alexander McQueen e Charles James, senza contare l’appuntamento del Met Gala (un occhio al jet set cosmopolita dominato da Anna Wintour). Non meno indipendente, per missione e intendimenti, è il Leonard A. Lauder Reasearch Center, di ultimissima fondazione, i cui obiettivi statutari risiedono nell’«analisi» e nell’«apprezzamento dell’arte moderna, e in particolare del Cubismo, includendo le sue origini e la sua influenza». Chiave per la nascita di questa struttura è stata la promessa donazione dell’imponente raccolta riunita dal magnate dell’industria cosmetica (Leonard A. Lauder, per l’appunto), innamorato di Picasso, Braque e Léger; tuttavia in attesa che i quadri si trasferiscano nelle sale del Met, l’organismo sostiene un’attività di investigazione attraverso borse di studio, conferenze e focus tematici, qualificatasi già per una notevole coerenza scientifica.
Frutto non secondario di questa politica è la mostra Birds of a Feather: Joseph Cornell’s Homage to Juan Gris, aperta fino al 15 aprile nella galleria 918 e consacrata alla figura di Cornell (1903-’72), proprio per la visuale insolita offerta sul maestro americano, il cui nome si lega a una produzione in miniatura fatta di collages sofisticati, di meravigliose valigie e di scatole artigianali, ricolme di giochi d’infanzia, ritagli erratici, pubblicità esotiche e di objets trouvés i più disparati.
Un simile repertorio, variato all’infinito secondo il piacere di un amusement indefesso e libero, in perfetto equilibrio fra disciplina e infrazione della regola, rimanda infatti per sua stessa essenza ai non meno normativi precetti surrealisti; e d’altronde – in accordo perfetto con la brigata bretoniana – la meticolosa ricerca di Cornell si muove, in particolare fra anni venti e quaranta, in direzione di un immaginario fiabesco, validato dalla patina del tempo: favole vittoriane, gelide icone manieriste, teatrini settecenteschi, Gilles nostalgici, fiale e alambicchi per distillare umor nero e malinconia; un elenco incrementato di rêverie in rêverie, senza mai viaggiare oltre Manhattan e i suoi dintorni sconfinati, attraverso una cultura libresca di fotografie, icone, incisioni, mappe, raccolte in ordine impossibile nel domicilio di Utopia Parkway nel quartiere popoloso del Queens.
Non a caso, per la sua prima personale, Cornell debuttò nel 1932 presso la Levy Gallery, la quale nello stesso anno presentava una retrospettiva sul movimento francese; e più tardi, nel 1936-’37, un suo pezzo – Soap Bubble Set – sarebbe stato incluso da Alfred H. Barr Jr. nell’evento capitale, organizzato al MoMA, sotto al titolo di Fantastic Art, Dada, Surrealism, accanto a un’altra scatola, numerose bottiglie e campane di vetro, indicate come The Elements of Natural Philosophy. Tuttavia, gli evidenti rapporti dell’artista con l’avanguardia parigina, al centro di una straordinaria risonanza internazionale, furono da questi precocemente problematizzati nel riconoscere i propri debiti rispetto ad alcune figure cardine di quel momento (Max Ernst, Salvador Dalí, André Masson, l’eccentrica metafisica di De Chirico), dissociandosi però dagli aspetti più generali riferibili all’ideologia del gruppo (un’obiezione affidata a una lettera a Barr del novembre ’36); ed è allora utile che l’esposizione odierna, curata con scrupolo da Mary Clarke Mckinley, proponga piuttosto di valutare il peso che la tradizione cubista ebbe sulle sue scelte formali, partendo dalle tracce – rebus, calembours, briciole di pane – disseminate da Cornell nelle sue creazioni tanto quanto nell’opus maximum costituito dal suo archivio e dai suoi diari.
Lo shock che dovette rindirizzarne le curiosità verso la lezione costruttiva del lessico post-picassiano fu l’incontro con la tela di Juan Gris, L’Uomo al caffè (oggi proprietà Lauder), dipinta nel 1914 ed esposta nel ’53 alla Sidney Janis Gallery, dove Joseph poté ammirarla il 21 ottobre: da qui una vera e propria ossessione documentaria – ben descritta in catalogo e già del resto abbozzata da un articolo pioniere di Anne d’Harnoncourt nel 1978 – la quale, secondo consuetudini comuni al suo agire, lo portò ad abbordare con sistematicità i contributi reperibili sull’oeuvre dello spagnolo (la biografia di Daniel-Henry Kahnweiler, il volume di Douglas Cooper, forse le parole elogiative della Stein). Il risultato fu un autentico rispecchiamento, a tal punto travolgente da fargli intravvedere nel collega già defunto «a warm fraternal spirit». Da una simile attenta considerazione della ‘parlata’ grisiana sarebbe originata una serie che – per consistenza e per ispirazione – si impone come un unicum: sull’arco di neppure un decennio Cornell eseguì infatti almeno ventuno opere in cui il rinvio a Gris appare esplicito nei titoli o nelle materie nodali di ciascun assemblaggio; e se altre dediche ad artisti possono essere individuate fra i suoi lavori (a Ernst, a Duchamp, suo amico nell’‘esilio’ newyorkese), le scatole intestate al madrileno svolgono una funzione memoriale, estranea a queste realizzazioni.
Rispetto allo studio dell’Harnoncourt, la mostra del Met rende noti due inediti e ha il merito non secondario di convocare in museo una sequenza cospicua (seppure non completa) dei pappagalli, delle serenate, degli hotel offerti al vivo ricordo di Gris. Non si tratta solo di una questione numerica: per sua stessa natura, l’arte di Cornell si apprezza attraverso le varianti, le sfumature, le lezioni difformi, in grado tutte di ampliare a dismisura il codice e di arricchire la polisemia di ogni elemento; nel caso specifico, poi, le sottigliezze stilistiche ripetono e rifrangono l’insegnamento dello spagnolo (nell’adozione della griglia compositiva, nella scelta cromatica, nell’impiego del nero, nel ricorso all’azzurro), costituendo un apparato di glosse nelle quali la poesia s’accompagna alla filologia.
Basta osservare le metamorfosi che la silhouette del kakatua – desunta dal libro Parrots in Captivity di William Thomas Greene (1884) – subisce di esemplare in esemplare, per capire la squisitezza della prassi dell’americano, aperta al divertissement e all’esercizio lirico delle forme: il pappagallo infatti – simbolo ambiguo di splendida imitazione – si impone come fulcro per la messa alla prova della ‘teoria delle ombre’ del madrileno, una delle qualità più frequentemente riconosciute alla sua pittura, fino al punto di sparire lasciando niente più che uno spettrale doppelgänger. È un ennesimo bel colpo riuscito alla McKinley l’aver individuato – fra i tesori dell’archivio di Cornell – uno stampo ligneo del pennuto costruito nel processo creativo delle scatole: perché tale scoperta rimanda alla squisita manualità dell’artista e serve a una sagace esegesi delle opere (in particolare del pezzo proveniente da Washington). Si osserva così il ‘caveat’ che lo stesso Cornell aveva apposto al cartone servito da deposito per le trouvailles connesse alla sua liason intellettuale con Gris: «this file does not contain a method for Juan Gris Boxes …the boxes came first/this file secondary… this paper intended as a guard against the wrong kind of researcher».