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Cormac McCarthy, fra i quanti e il dolore

Cormac McCarthy, fra i quanti e il doloreElizabeth Peyton, «Max», 1996

Scrittori statunitensi Atto conclusivo del dittico inaugurato con «Il passeggero», l’ultimo romanzo dello scrittore americano inchioda il lettore alla logica della protagonista: «Stella Maris», da Einaudi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

Nelle prime battute del suo film più recente, Christopher Nolan introduce il giovane J. Robert Oppenheimer tormentato dalle visioni oscure di un mondo al di là del sensibile. Il geniale e controverso fisico americano ci viene mostrato insonne, emaciato, completamente assorbito dal tentativo di comprendere il tessuto profondo del reale così come lo suggeriscono i primi sviluppi della fisica quantistica: un universo inesplorato e ancora largamente incomprensibile ma dalle potenzialità sconfinate. Nel trasporre sullo schermo l’angoscia dell’Oppenheimer ancora studente, il regista inglese lo ritrae impegnato in una ricerca epistemologica totalizzante: il tentativo di comprendere la struttura profonda dell’esistenza passa tanto attraverso gli insegnamenti di Niels Bohr e Werner Karl Heisenberg, quanto attraverso opere come il Sacre du printemps di Igor Stravinskij, La terra desolata di T.S. Eliot, i testi della psicoanalisi, i dipinti cubisti.

Questo stesso rapporto serrato tra saperi solo apparentemente lontani, capaci di concorrere a una conoscenza olistica della realtà, fa da sfondo all’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Stella Maris (traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, pp. 194, € 18,50), atto conclusivo del dittico inaugurato con Il passeggero. Durante gli ultimi nove anni della sua vita, lo scrittore americano fu membro del Santa Fe Institute, un’unità di ricerca concentrata sullo studio dei sistemi adattivi complessi, fondata  – tra gli altri – dal fisico statunitense Murray Gell-Mann, con il quale McCarthy instaurò un solido legame di scambio intellettuale. Notoriamente insofferente dei limiti intrinsechi al mondo letterario – «la scrittura è in fondo alla lista delle cose che mi interessano», ebbe a dire – l’autore ha spesso fatto traversare i suoi romanzi da riflessioni filosofiche che tendono ad avventurarsi oltre i limiti della percezione, per svelare una dimensione eccedente il linguaggio – e di conseguenza l’intelletto. Succede in Oltre il confine, il suo romanzo più votato al ragionamento speculativo, e – più recentemente – in Il passeggero, dove la trama si disfa via via per cedere a una meditazione sullo statuto della realtà. Quasi a integrare questo suo penultimo romanzo, il cui protagonista era Bobby Western – giovane uomo inquieto, di professione sommozzatore, in fuga da ignoti emissari governativi – McCarthy ha scritto Stella Maris, titolo che riprende il nome dell’istituto psichiatrico del Wisconsin dove è ricoverata la sorella di Bobby, Alicia Western, giovane prodigio della matematica che si toglierà la vita convinta di aver perso l’amatissimo fratello in un incidente.

Dedicato a illustrare la dialettica dello sconforto in cui è precipitata la ragazza, attraverso il rendiconto delle sedute alle quali si sottopone con lo psichiatra che l’ha in cura, questo secondo atto precede, in realtà, la storia di Bobby Western raccontata nel Passeggero, ed è affidato a una struttura dialogica dal passo serrato, di stampo teatrale – forma alla quale l’autore si era già dedicato, con successi alterni, in The Stonemason (1994, inedito in Italia) e Sunset Limited (2006), ibridi di dramma e dialogo filosofico, centrati su frustranti riflessioni esistenzialiste.

In quanto collega del padre di Alicia durante il Progetto Manhattan che portò alla creazione della bomba atomica, Oppenheimer viene più volte evocato nel testo. Anche Alicia, come il fisico, è in possesso di un’intelligenza «spaventosa», non del tutto sotto controllo perché attratta in maniera irresistibile e letale da virtualità teoriche sconvolgenti, capaci di sgretolare la percezione umana in un nichilismo senza ritorno. Una qualche ambiguità è già nascosta nel titolo del romanzo, che mentre si riferisce all’astro dei marinai evoca tanto la luce della stella polare quanto quella metafisica della Vergine, e con ciò sembra indicare la possibilità di un porto salvo, in contrasto con l’oscurità degli abissi oceanici evocati nel Passeggero. Ma, al tempo stesso, la parabola di Alicia suggerisce che il desiderio di approdare a una conoscenza ultima del mondo è piuttosto garanzia di dannazione. Il tema faustiano, già affrontato da McCarthy con il personaggio del giudice Holden in Meridiano di sangue, torna questa volta in una declinazione più crepuscolare che demoniaca. L’esistenza per Alicia è «una specie di piana che s’oscura», un’illusione fragile e impossibile da mantenere a fronte delle vertigini adombrate dalla logica stringente dei numeri. Identificare i limiti di un sistema di pensiero, secondo la matematica, comporta lanciare uno sguardo sui confini del reale senza poterne varcare i confini. È la «verità della vita dall’altra parte dello specchio», ovvero ciò che – secondo Alicia – si nasconde al di là della mente a portarla alla sua lucida follia e poi alla morte, con la convinzione che al cuore della vita stessa ci sia un «orrore mal trattenuto», un «abissale ed eterno demonium», che coincide con la risposta finale a tutti i quesiti: della scienza e della coscienza.

La tensione analitica riversata da Cormac McCarthy in Stella Maris, e interpretata dalla sua geniale protagonista, si scontra con il vuoto dell’inconoscibile, ciò che Alicia chiama archatron – non solo tomba dell’umanità, ma memento informe della sua futilità. Già presenti nella Trilogia della frontiera attraverso la simbologia del sogno e della parabola, queste speculazioni acquistano qui l’inconfutabilità, almeno apparente, del linguaggio matematico. Inchiodando il lettore alla logica di Alicia, McCarthy affida all’ultimo dei suoi lavori il risultato delle sue meditazioni sulla domanda che anima l’ultima fase della sua produzione: cosa c’è al cuore di questo nostro mondo? Fino ad un certo punto, la sua risposta, comunque ellittica, faceva coincidere l’essere con il racconto: tutto è fatto di storie, e soltanto di storie: era una risposta che, affidando alla parola un potere demiurgico, disinnescava il nichilismo dei romanzi più recenti – The Road su tutti.

Complice forse l’approssimarsi della morte, sopraggiunta solo sei mesi dopo la pubblicazione di Stella Maris, questo commiato dal mondo letterario sembra offrire ben poche rassicurazioni a fronte delle angosce esistenziali che attanagliano tanto la protagonista quanto l’autore. Eppure, nel gesto finale di Alicia, che viene meno al suo distacco per stringere la mano dello psichiatra «perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa», è lecito leggere un piccolo spiraglio di speranza, dovuto all’empatia intrinseca al desiderio di condividere le nostre storie a fronte della fragilità dell’esistenza.

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