Non ha pace né tregua, John Wick. La sua saga era partita con un primo episodio che sembrava poco più che un filmetto di routine di Keanu Reeves dei primi anni ’10 del 2000 (cosette come 47 Ronin, Man of Tai Chi). Pochi avevano notato il guizzo del valore aggiunto rappresentato dalla regia dell’ex stunt man Chad Stahelski che incrocia Reeves (fatal combinazion) su Point Break, lavora su quasi un centinaio di film e, soprattutto, sostituisce Brandon Lee dopo che questo è ferito mortalmente sul set de Il corvo. Stahelski appare anche come attore in molti film del compianto Albert Pyun (Cyborg Terminator 2 e 3) e Vampires di John Carpenter.

PER DIRE: un curriculum di tutto rispetto per un film che, su queste pagine, abbiamo accolto con favore evocando all’epoca il magistero dei Vic Armstrong, Craig R. Baxley, dei Peter MacDonald, dei Sheldon Lettich, evidenziando immediatamente la qualità del lavoro di Stahelski (ricordiamolo: controfigura di Reeves per Matrix) e di David Leitch, cascatore, attore e regista, appunto, di seconde unità (e firma del geniale Bullett Train).

La redazione consiglia:
Non svegliate Keanu ReevesFrancamente inutile stare a tagliare il capello in quattro e ribadire che tutto quel carnaio per un cagnolino trucidato non valeva la pena, perché già dal secondo capitolo la squadra creativa alza la posta di molto e introduce gli elementi di una mitologia che si rivela compiutamente nel magistrale terzo capitolo della serie, forse l’apice del cinema d’azione non asiatico con il mai troppo lodato Universal Soldier: Regeneration di John Hyams.
Al quarto capitolo, l’universo di John Wick letteralmente esplode. Il primo elemento, di lunga tradizione jamesbondiana, è quello del travelogue che Tom Cruise con i suoi Mission Impossible ha sviluppato a un grado di perfezionismo virtuosistico (il corpo contro l’immaterialità dei luoghi) e che Vin Diesel con i suoi F&F vandalizza fracassando tutto in nome del primato della macchina e dei motori.

 

John Wick ha dalla sua Keanu Reeves, dotato di fluidità metrosexual, perennemente caracollante, come un Sartana o un Django del western italiano che fu.
Il mondo esiste solo come teatro di coreografie marziali così astratte da evocare a più riprese la metronomia fisica di Buster Keaton e Harold Lloyd. In un film nel quale i morti ammazzati non si contano, nel quale s’inventano completi impeccabili (taglia 42 per il Signor Reeves, che preferisce un’eleganza discreta) con risvolti di Kevlar pur di tenere appeso a un filo l’incanto della sospensione dell’incredulità, è paradossalmente totalmente assente il sadismo del corpo umiliato dalla violenza dei colpi inferti. Il sangue schizza, le classiche nuvole di rosso digitale, i proiettili esplodono, ma tutto con una grazia da coreografia nipponica che sembra celebrare più le possibilità infinite del corpo di resistere alle ingiurie della violenza che quelle di porre fine a una vita.

E POI: come non comprendere la presenza di Clancy Brown (ossia The Kurgan di Highlander…) che ricorda discretamente come la saga di John Wick sia ormai ascesa nell’iperuranio degli dei e che di (post)umano ormai non ha più nulla? Ne resterà solo uno, anche se dovrà affrontare titaniche sfide di Sisifo (con tanto di scale di Sacré-Cœur a spiegarlo anche all’ultimo che non ha capito).
Ah già, il plot: the Table vuole la morte di John Wick e mette una taglia sulla sua testa. Il film, però, è molto più complesso di così e si gode – si consiglia la visione in Imax – come un’installazione di arte contemporanea. Il carosello all’arco di trionfo deve essere visto per comprendere cosa significa coreografare uomini e macchine. E lode sia a Nathan Orloff, montatore sublime che staccando e raccordando fa sembrare John Wick 4 un piano sequenza di quasi tre ore.