La classe media sudcoreana risparmia sulla beneficenza. I soldi non bastano. Colpa dei debiti delle famiglie e delle spese per l’istruzione privata dei figli. Le risorse diminuiscono e a farne le spese sono le associazione caritatevoli. Lo rivela un’analisi della Seul Welfare Foundation sui dati forniti dalla Beautiful Foundation, uno dei principali enti di beneficenza del paese. Se nel 2009 gli appartenenti al ceto medio costituivano il 58 per cento delle donazioni nel 2011 la percentuale è scesa al 51 per cento.

Ha avuto ragione la presidentessa Park Geun-hye, prima donna a guidare il Paese, quando in campagna elettorale lo scorso novembre si impegnò a «ricostruire la classe media». Ha così fatto leva su ciò che i sudcoreani volevano e vogliono. L’obiettivo entro la fine del mandato è far sì che il 70 per cento della popolazione rientri in questa categoria. Praticamente ai livelli precedenti la crisi asiatica del 1997.

Oggi comprende invece circa i due terzi dei sudcoreani. Secondo un rapporto pubblicato ad aprile dalla società di consulenza McKinsey, il Paese è passato dall’essere una delle economie avanzate con il tasso di risparmio più alto (19 per cento) a uno tra i più bassi, con appena il 4 per cento. Il tasso dei suicidi è invece il più alto tra i Paesi Ocse. E la Corea del Sud dovrà presto fare i conti con una forza lavoro in diminuzione e una popolazione sempre più vecchia. Così mentre il mondo ha gli occhi puntati sul versante Nord della penisola coreana, per le minacce lanciate da Pyongyang contro gli Usa e i Paesi vicini, a impensierire i sudcoreani non sono tanto le bizze del giovane Kim Jong-un e dei suoi generali, ma l’allargarsi delle disuguaglianze interne e la questione del lavoro.

Lo scorso febbraio, secondo un sondaggio dell’Asan Institute for Policy Studies, appena il 15 per cento dei sudcoreani considerava le relazioni tra Seul e Pyongyang il tema più importante della politica nazionale, sebbene quasi il 60 per cento si sentisse minacciato dal terzo test nucleare nordcoreano condotto a metà dello stesso mese. Più o meno sulle stesse percentuali stava la necessità di ridistribuire la ricchezza, mentre per quasi il 40 per cento degli intervistati la priorità per il Paese era la creazione di nuovi posti di lavoro.

A marzo, nel crescendo delle provocazioni del regime, scandite dai comunicati rilanciati dall’agenzia ufficiale Kcna, saliva anche l’attenzione per le relazioni inter-coreane, ma ben sotto il 30 per cento, soglia superata al contrario dal tema dell’occupazione.

Le speranze infuse da Park nella classe media dovranno andare di pari passo con almeno altri tre impegni presi con gli elettori: migliorare il welfare, creare occupazione, realizzare la cosiddetta «democrazia economica», uno slogan vago che semplificando può essere tradotto nel sostenere le piccole e medie imprese e porre un freno allo strapotere dei grandi conglomerati che tra gli anni Sessanta e Settanta, sotto il regime del padre della presidentessa, Park Chun-hee, contribuirono alla modernizzazione del Paese.

Per il momento più che perdere terreno, Samsung, LG, Hyundai Motor e gli altri colossi hanno rafforzato il proprio dominio sull’economia sudcoreana. Se nel 2002 le vendite dei trenta principali conglomerati contribuivano al 53 per cento prodotto interno lordo sudcoreano, l’anno scorso sono passate al 82 per cento, rivelano le anticipazioni del numero di luglio di Bloomberg Markets. I giganti economici sono anche i più ambiti da chi vuole entrare nel mondo del lavoro. Ma per farlo serve essere usciti dalle università migliori del Paese. La corsa per accederci fa da propulsore al settore dell’istruzione privata che prepara gli studenti agli esami di ammissione. Anche l’accesso alle università di prestigio è questione di classe e di famiglia. A gennaio un’inchiesta del quotidiano Hankyoreh svelò la polarizzazione dell’istruzione in base alla ricchezza dei propri genitori, con la maggioranza degli studenti iscritti alle università più ambite provenienti dal 20 per cento più ricco delle famiglie.

Park Geun-hye si è a più riprese espressa contro la «discriminazione educativa», ossia contro il fatto che giovani preparati e bravi, ma non usciti dalle migliori università, non riescano ad accedere a posti di lavoro gratificanti che premino le loro capacità. La parola d’ordine del governo per sostenere la crescita si chiama «economia della creatività». Nell’immaginario collettivo i sudcoreani sono legati ai gadget, a uno stile che fa moda in Asia, alla popolarità delle serie televisive e della musica K-pop nel continente, agli smartphone e ai tablet che fanno concorrenza ai prodotti Apple e dei cittadini una delle popolazioni più connesse al mondo.

Tuttavia i grandi conglomerati sono principalmente dediti al manifatturiero e alle esportazioni. La ricetta del governo, che tra gli altri impegni ha l’obiettivo di creare 480mila posti di lavoro l’anno, punta sul sostegno alle startup e alle piccole e medie imprese. Il piano prevede anche l’apertura di un terzo indice azionario dedicato ai piccoli. Un modello che rivolta quello che fece del Sud una delle tigri asiatiche.