Perché la Corea del Nord non rinuncia al suo arsenale atomico, nonostante le costanti minacce da parte del mondo occidentale e – negli ultimi tempi – del suo alleato principale, la Cina? Al di là della probabile certezza della leadership nord-coreana circa l’impossibilità di un attacco militare contro le proprie basi, essendo oggi la Corea del Nord in grado di colpire tanto la Corea del Sud quanto il Giappone (e a breve, secondo studi di esperti militari americani, anche gli Usa), un’altra ragione risiede in un fenomeno quasi mai preso in considerazione quando si parla di Corea del Nord. Lo stato coreano, spesso definito «eremita», fin dagli anni della «guerra fredda» ha sviluppato una sorta di imprenditorialità capace di inserirla nell’economia globale e di sviluppare diverse forme di mercato interno.

Come sostenuto da Andrei Lankov, uno dei massi esperti mondiali sulla Corea del Nord, nel paper The Resurgence of a market economy in North Korea (Carneige Moscow, 2016) «la comune opinione sulla Corea come l’ultima dittatura comunista (o socialista o stalinista) del pianeta, è ormai obsoleta. Oggi la Corea del Nord assomiglia più a un paese con una povera economia di mercato caratterizzata da un esteso intervento del governo e una forte, seppure inconsistente, regolamentazione».

Oggi infatti si ritiene che il settore privato produca tra il 30 e il 50 percento dell’intero Pil nazionale. Per questo la leadership coreana, forse, ritiene che nonostante l’irrigidirsi di sanzioni, l’impianto economico «globale» messo a punto dalla guerra fredda a oggi consenta al regime di avere un atteggiamento molto determinato nei confronti delle minacce occidentali. Benché infatti dipenda in gran parte dalla relazione economica con la Cina, questo elastico «di mercato» consente a Pyongyang di non avere la preoccupazione di sfamare tutti i cittadini come avveniva in passato. Chiudendo un occhio, infatti, consente ai più temerari di cavarsela da soli.

E questi cambiamenti poco considerati dalla letteratura e dalle cronache giornalistiche hanno introdotto delle diseguaglianze ulteriori nel paese: a Pyongyang vive infatti una sorta di classe di privilegiati che si può permettere cene in ristoranti, case dignitose (in Corea si sta sviluppando un interessante mercato edilizio, con tante nuove costruzioni) e perfino una macchina, oltre che il cellulare (la rete è fornita da una compagnia egiziana).

Rispetto al resto del paese questa fascia di popolazione gode di favori economici dovuti a posizioni politiche e commerciali, incastonate tra l’irraggiungibile lusso della leadership e la ricerca costante di portare a casa qualcosa da mangiare per il resto della popolazione.

Questi argomenti, inseriti nel corso della storia del paese degli ultimi 40 anni, sono al centro di un volume uscito a fine 2016, scritto da Justin V. Hastings, A most enterprising country, North Korea in the global economy (Cornell University Press, 29$, 240 pagine).

Hastings distingue tre soggetti che in Corea del Nord hanno sviluppato forme di collegamento con l’economia mondiale. Da un lato c’è lo stesso stato coreano, importante «trader» per assicurarsi armi e materiale idoneo per i propri piano bellici e teso ad accaparrarsi beni di lusso per distribuirlo tra i sottoposti e assicurare così la fedeltà al regime. Poi c’è il livello di funzionari intermedi, ambasciatori e dirigenti con la possibilità di muoversi: sono loro i principali fautori di reti adatte a garantire tanto l’esportazione quanto l’importazione di beni.

E sono loro che via via che il paese diventava vittima di sanzioni sempre più forti (dal divieto di commercio, fino al controllo di navi e aerei diretti in Corea del Nord anche da parte di paesi non all’interno della Nazioni Unite) hanno sviluppato la capacità di diventare «broker» ovvero intermediari: in questo modo la Corea del Nord smetteva di comparire dietro a scambi commerciali e finanziari, ora nascosti attraverso banche cinesi, iraniane o infine di Taiwan, e continuare a commerciare. Infine c’è la popolazione più povera, soprattutto le donne, escluse dall’obbligo di lavorare per le aziende statali.

Sono loro che soprattutto negli anni ’90 durante la carestia hanno sviluppato forme di mercati privati (e piccoli commerci specie con la Cina), rivendendo quel poco che possedevano. All’epoca – a inizio anni ’90 – per la Corea del Nord le cose si erano messe molto male. L’Urss in disfacimento aveva cominciato a chiedere pagamenti reali e non di favore; così aveva fatto, seppure in minima parte, anche la Cina. Poco dopo, nel 1992, Pechino avrebbe normalizzato i rapporti con Seul e la Russia avrebbe cominciato a tagliare l’invio di fertilizzanti e di altri beni di cui il paese aveva bisogno. Senza energia elettrica e senza fertilizzanti il raccolto aveva cominciato a dimagrire, poi erano arrivate le piogge.

Un’epoca di carestia che secondo molti «disertori» avrebbe provocato milioni di morti.

All’epoca saltò tutto, per primo il sistema statale di distribuzione del cibo e la leadership decise di lasciar correre e anzi favorì la nascita di piccoli mercati privati che hanno continuato a esistere, benché dal 2005 il governo abbia provato a chiuderli rimettendo in moto il sistema statale. Ma ormai quelle dinamiche si erano sviluppate e ancora oggi «per molti coreani il commercio è l’unico modo che hanno di sopravvivere o acquisire stili di vita che lo stato è incapace di garantire; per lo stato nord coreano, il suo network commerciale, è parzialmente responsabile del mantenimento delle élite al potere».

Si tratta di forme di «impresa» che hanno avvicinato più di quanto si pensi la Corea al mercato mondiale e che sono proseguite anche dopo il 2006 e il primo test nucleare.