Un mese fa, fra Theresa May e altri cinque anni di strapotere conservatore c’erano solo trenta facili giorni di una campagna elettorale da improvvisarsi sotto un duplice stendardo, quello della Brexit, e della damnatio memoriae di un redivivo della politica del Novecento, quel Jeremy Corbyn minimizzato da un distacco di oltre venti punti percentuali. Il piano era semplice: mentre il partito laburista, nel tentativo geniale di sgambettare il proprio leader, sarebbe corso verso l’estinzione, lei, Theresa, una volta raccolta l’eredità di Thatcher anche grazie a una stampa nazionale geneticamente di destra, avrebbe guidato il Paese nel difficile ma epico negoziato con la meretricia e papista Bruxelles.

C’ERA UN SOLO PROBLEMA. Il carisma di Theresa, o meglio la sua mancanza, sconsigliavano una prolungata esposizione ai media, anzi all’elettorato. Per questo era stata chiara dall’inizio. Fin troppo conscia della sua tele-inettitudine, aveva rifiutato qualunque confronto televisivo con gli altri leader – più che mai con il trotzkista scongelato Corbyn – aggrappandosi a una sfilza di apparizioni elettorali puntualmente rivelatesi dei boomerang proprio grazie alle claque prezzolate e al copione dettagliato. Meno ancora l’aiutava un programma elettorale suicida che, ammiccando malamente al blocco storico dell’elettorato laburista, è andato a colpire proprio i pensionati, che sono quello dei conservatori. Nel frattempo, dopo la tragedia di Manchester, il loro vantaggio sul Labour si è ridotto a sei punti.

IL PEGGIO È CHE, a un certo punto, sotto le forche catodiche ci sarebbe dovuta passare. E nel confronto televisivo a distanza di lunedì, con Corbyn in ascesa nei sondaggi, questa campagna ha definitivamente cessato di essere il galoppo trionfale verso il potere che i conservatori sognavano. I due leader sono apparsi su Sky e Channel 4 lunedì sera e hanno separatamente risposto alle domande del pubblico in sala e a quelle del ferocissimo Jeremy Paxman, veterano ex-Bbc noto per l’ostinazione da pitbull con cui ripete le domande. Si sarebbe confermato cattivo con entrambi, ma feroce con May.

ANCORA UNA VOLTA, Corbyn ha fatto quello che aveva cominciato a fare poco dopo esser assurto miracolosamente al ruolo di segretario: mediare con un centro del partito e relativo elettorato determinati a liberarsene. E nel rispondere alle domande incalzanti di Paxman, ha ribadito le sue storiche posizioni su politica estera, negando di essere amico di Hamas e di aver deprecato la morte di Osama Bin Laden perché fu un’esecuzione senza processo. Ha convenientemente messo in frigo il repubblicanesimo di una vita rassicurando tutti sull’aver avuto una chiacchierata con la monarca, e ha rifiutato domande tendenziose sulla sua attendibilità qualora da premier fosse responsabile della difesa militare. Sull’armamento nucleare Trident resta come vuole il partito, anche se sono contrario, ha detto. Non ha messo un tetto definito all’immigrazione, e ai fanatici del Remain ha detto che il Labour «deve accettare la realtà del referendum». Da uno come Corbyn, che sta correndo da due anni la corsa della vita sua e di quella del partito con grande slancio, è arrivata una performance tutto sommato spigliata e composta, se ne stanno accorgendo anche i giornali di regime. Peccato che ieri mattina non fosse affatto sicuro in un’altra intervista radiofonica alla Bbc.

 

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A MAY NON È ANDATA così liscia. Le mancanze e i pressappochismi di cui è stata finora l’austera facciata sono emersi in tutta la loro punitiva gravità. E con loro andava squagliandosi quell’immagine «forte e stabile» fin qui propagandata con insistenza esasperante. Nell’arena del consenso televisivo è apparsa per quel che è: una leader disposta a compromettere la stabilità economica del Paese pur di distruggere il Labour per sempre in questa irripetibile occasione. Disposta a capitombolare fuori dell’Ue senza uno straccio di accordo mentre è intenta nella totale erosione del già compromesso stato sociale del Paese. Che ha mutuato il neoliberalismo ultramercatista globalizzato del duo Cameron-Osborne con un nazional-sovranismo simil-solidale, introflesso, di anguste vedute. Parte del pubblico in studio ha accolto con sghignazzi certe sue risposte.

Non è ancora abbastanza per pensare che perda le elezioni. Ma per sperarlo sì.