Che il compito di Jeremy Corbyn fosse impari, si sapeva. È come se avesse conquistato la leadership dello stesso partito al quale si era proposto come alternativa nella campagna per le primarie: ovvio che la triplice alleanza non scritta di tories, moderati neolaburisti e media mainstream gli avrebbe dato immenso filo da torcere.

Polarizzato fra la spinta sindacalista e militante dietro al segretario e l’arroccamento contro di lui della maggioranza dei notabili del Parliamentary labour party (Plp), il partito continua ad avere le convulsioni.

Per curarlo, Corbyn e John McDonnell – il ministro ombra delle finanze dipinto come «radicale» dai commentatori – devono camminare in bilico sull’abisso che separa l’ala neoliberista del partito da quella «neosocialista».

In economia, ciò implica fare necessariamente delle concessioni alla vulgata della responsabilità fiscale così come propagandata dai tories e dai blairisti. Questo per cancellare lo stigma mediatico di spendaccioni negazionisti del deficit che sarebbe stato, sempre secondo detta vulgata, causa principale della disastrosa sconfitta del Labour alle ultime politiche.

(L’equivalente sul fronte internazionale è che il partito potrebbe appoggiare l’intervento militare in Siria senza l’autorizzazione dell’Onu, negata dal veto russo, giacché almeno 50 deputati si dicono pronti a trasgredire la linea non interventista del segretario).

Una di queste concessioni, in questo caso sorprendentemente larga, McDonnell l’aveva annunciata già prima del recente congresso di Brighton.

Nella votazione parlamentare di mercoledì, aveva detto, il Labour avrebbe appoggiato il cosiddetto Fiscal Charter, altrimenti noto come Charter of budget responsibility: un obbligo legale a quel pareggio di bilancio da sempre cavallo di battaglia del ministro delle finanze Osborne, e in nome del quale i Tories proseguono gioiosi nello smantellamento dello stato sociale.

Si tratta di una misura politica, travestita da economica. Non solo impedirà per legge a futuri governi di spendere più delle proprie entrate fiscali in condizioni di crescita; impegna quello attuale a continuare a ridurre annualmente il debito in rapporto al Pil e a raggiungere un avanzo di bilancio entro il 2019-20, da mantenersi permanentemente fin quando un think tank creato dai tories, l’Office for Budget Responsibility (Obr), avrà ritenuto sufficiente la crescita dell’economia nazionale.

(In Italia questo identico risultato è stato raggiunto nel 2012 con il famoso «pareggio di bilancio» approvato all’unanimità da Pd e Pdl e inserito di corsa nell’art.81 della Costituzione dal governo Monti, ndr).

Un obiettivo-feticcio che Osborne aveva promesso sarebbe stato raggiunto quest’anno, che è stato bucato e probabilmente continuerà ad esserlo. Ma soprattutto, utilissima nel produrre fratture fra il Plp e la leadership.
Così, sorpassando a destra il partito un tempo guidato da Ed Miliband, già piegato a un’austerity light, McDonnell rischiava di fare un regalo ancora più grande a Osborne, che nel dibattito in aula prima del voto ha esortato i parlamentari laburisti dissenzienti a votare con la maggioranza, e addirittura a disertare le fila Labour per entrare nelle loro, «il nuovo partito dei lavoratori».

Per Corbyn un danno di credibilità enorme verso la base che lo ha eletto, e che avrebbe lasciato gli indipendentisti scozzesi del SNP soli con i verdi a votare contro il Fiscal charter.

Ma il rinsavimento non è tardato.

Dopo aver parlato con alcuni operai metallurgici dello stabilimento SSI Redcar, che in più di 2mila hanno appena perso il lavoro in seguito alla chiusura definitiva dell’altoforno, McDonnell ha avuto una sacrosanta illuminazione: in un precipitoso dietrofront ha annunciato giorni fa che il partito avrebbe votato contro.

E mercoledì sera, con buona pace delle accuse d’incompetenza e dilettantismo che puntualmente piovono su questa nuova dirigenza, il Labour ha votato da partito laburista. Contro il Fiscal charter, anche se è passato lo stesso (320 a 258).

[do action=”citazione”]Pur non potendo evitare del tutto la trappola di Osborne, Corbyn e McDonnell hanno tenuto la barra a dritta.[/do]

Il chief whip, il capogruppo, ha avuto il suo daffare, e le defezioni ci sono state: 21, meno delle 30 previste. Nemmeno troppe per un serial rebel come Corbyn, che ha sfidato il partito in centinaia di votazioni ed è abituato al dissenso, anche contro di sé.

Tra le più eccellenti, quella della rivale alla leadership sconfitta, la blairiana Liz Kendall, il gallese Chris Evans, l’ex-ministro ombra delle finanze Chris Leslie, Jamie Reed e l’ex-ministro ombra dell’istruzione Tristram Hunt.

Un confronto duro in aula, dopo quello tutto sommato soft tra Corbyn e Cameron la stessa mattina di mercoledì alle «Prime minister questions», dove il leader dell’opposizione ha nuovamente sottoposto al primo ministro casi reali d’indigenza provocata dalle misure del governo, ripetendo il quasi surreale slittamento dei toni abituali di quel contraddittorio.

Ma è stato anche un momento in cui la politica è sembrata riaffacciarsi sugli scranni di Westminster, dopo un’assenza troppo a lungo riempita – male – dall’amministrazione bipartisan di un tristo esistente.