Un Jeremy Corbyn si aggira per Westminster. È ancora lui, solo non è più lui. È rimasto lo stesso: bonario e trasandato, vestito uguale da trent’anni, uno che lo schermo non lo buca, lo mura; uno in bianco e nero.

Solo che ora, da capo dell’opposizione a Sua Maestà, è diventato capo dell’opposizione di Sua Maestà. E ha un potere enorme. Anche per questo è ora un sorvegliato speciale che muove i primi passi sotto lo scrutinio maniacale, curioso, sprezzante dei media. La sua vittoria è stata definita in tono da tregenda dai Tories come «una minaccia alla sicurezza vostra e delle vostre famiglie». Altro che «nemico interno» (come Margaret Thatcher definì i minatori in sciopero nel 1984, prima di schiacciarli): qui il nemico bivacca nel tinello. Ora questo socialista, repubblicano, pacifista e antimperialista che si trova a guidare l’opposizione in un paese monarchico, perennemente impegnato in zone di guerra e riluttante a riconoscere il proprio imperialismo 2.0, ha formato il suo governo ombra, al primo e più delicato degli infiniti varchi che lo attendono.

Ed è ovvio per tutti che non si tratti del solito rimpasto, ma del banco di prova ultimo della sua capacità di frenare la forza centrifuga innescata nel partito dalla sua elezione. Dunque dev’essere un governo ponte il suo, più che ombra. Per costruire il quale ci vuole genio politico, non civile. E che serve da primo passo verso una confutazione della presunta ineleggibilità del partito sotto la sua guida.

Inutile nasconderlo: la difficoltà del compito è enorme per un segretario chiamato a esprimersi sull’Europa (è moderatamente euroscettico), sulla Nato, sugli armamenti nucleari, di cui il paese è ben fornito. A una manciata di secondi dall’annuncio della vittoria di Corbyn, sabato scorso, Jamie Reed, ministro ombra alla sanità, già lasciava l’incarico. Seguiva un’emorragia di dimissioni centriste: Chris Leslie alle finanze, Rachel Reeves al lavoro, Tristram Hunt alla pubblica istruzione, Caroline Flint all’energia e ambiente, tutti si avviavano verso le retrovie dell’aula, le backbench. Sono sostituiti rispettivamente da John McDonnell, (vecchio amico e sodale di Corbyn e organizzatore della sua campagna), Owen Smith, Lucy Powell, Lisa Nandy. Agli esteri rimane Hilary Benn, figlio del grande Tony, uno dei riferimenti storici di Corbyn nel partito, come anche Lord Falconer resta alla giustizia.

Corbyn ha definito queste nomine una «forte combinazione di cambiamento e continuità» aggiungendo di aver presentato «Un governo ombra unificante, dinamico, inclusivo che per la prima volta presenta una maggioranza femminile». Una chiara risposta alle polemiche piovute lungo tutto l’arco della mattinata: troppi maschi nei posti «chiave».

McDonnell ha a sua volta risposto definendo i posti ritenuti «chiave» come finanze, interni, esteri un retaggio ottocentesco. «Non lo sono, non li accettiamo come tali. Non si può dire che il ministro degli esteri sia più importante del fornire un’istruzione ai nostri figli, o della salute della popolazione. Non accettiamo queste gerarchie» ha detto ieri mattina McDonnell ai microfoni di Sky News. Alla fine della mattinata, l’elenco dell’esecutivo ombra comprendeva uomini e donne in equilibrio, con istruzione, commercio e sanità assegnati rispettivamente a Powell, Eagle e Heidi Alexander. La difesa va alla gemella di Angela Eagle, Maria.

Dei suoi tre ex-avversari alla leadership, solo Andy Burnham resta a bordo: a lui il dicastero ombra degli interni, già di Yvette Cooper. Liz Kendall, il candidato più neolaburista classificatasi ultima alle primarie, lascia il ministero dell’assistenza agli anziani. Altra defezione prevedibile, quella dell’ex ministro ombra per il commercio, il giovane Chuka Umunna, che ha dichiarato di non voler essere una «spina nel fianco» del neosegretario.

Ed Miliband, che ha avuto parole di sostegno per Corbyn, ha deciso di restarsene anche lui in disparte. Angela Eagle, il nuovo ministro ombra per il commercio, è stata anche nominata segretario di stato-ombra e sarà la vice di Corbyn quando Cameron è assente a Prime minister’s question, il teatrale contraddittorio parlamentare fra capo del governo e capo dell’opposizione tipico del parlamentarismo britannico che tante volte Corbyn ha criticato per autoreferenzialità e si è prefissato di riformare.

Ma è la nomina di McDonnell a provocare le grida più stridule. Temutissima figura «radicale» e «di sinistra», ribelle impenitente come lo stesso Corbyn alle direttive di voto del partito – che qui sono gestite da una figura disciplinare in ciascun partito detta Chief whip – deputato nelle circoscrizioni di Hayes e Harlington, si è candidato senza successo alla leadership nel 2007 e nel 2010, McDonnell si è lasciato sfuggire qualche colorata invettiva ai danni della Thatcher e a un raduno in memoria di Bobby Sands ha causato obbrobrio una sua esaltazione dei militanti dell’Ira.

Che a uno come lui vadano le finanze dopo una tornata elettorale persa per non essere riusciti a convincere l’elettorato della propria competenza nel gestire l’economia (secondo la vulgata mediatica dominante) è visto come un atto di guerra nei confronti della componente parlamentare del partito, quella presso cui questo segretario plebiscitario ha il sostegno più scarso. Corbyn e il suo vice, Tom Watson, un carrierista dal volto umano ed ex giovane pretoriano di Gordon Brown, stanno imparando a conoscersi.

C’è chi teme le capacità complottistiche di Watson possano prestarsi a un tentativo di rovesciamento del segretario. Ma Watson giura che il mandato è a prova di complotto. Mandato che, per quanto vasto, conta sul consenso dell’ala parlamentare più ridotto nei 115 anni di storia del partito laburista.