Jeremy Gilbert è Professor of Cultural and Political Theory presso l’University of East London. È autore di vari libri, fra cui Anticapitalism and Culture, ed è un membro del movimento Momentum, creato due anni fa sulla scia dell’ascesa di Jeremy Corbyn alla leadership Labour.

Professor Gilbert, che impatto avranno gli attentati sulle urne?

È sorprendente che i Tories abbiano incontrato difficoltà nel capitalizzare le preoccupazioni sulla sicurezza nazionale, visto che è un loro tradizionale punto di forza, e che Corbyn è considerato intrinsecamente debole sulle stesse questioni. Ci sono tre ragioni. La prima è che May era la ministra responsabile della sicurezza interna prima di diventare premier, e dunque è difficile che simili incidenti non la indeboliscano. L’altra è che il Labour ha gestito brillantemente la situazione, concentrandosi su questioni di fondi alla polizia (drasticamente tagliati in questi anni) adottando allo stesso tempo un tono misurato e maturo. La terza è dovuta al fatto che l’opinione pubblica non è mai stata perturbata più di tanto dal terrorismo, in parte credo grazie tradizionale sangue freddo nazionale.

intervista britain Jem-web
C’è euforia nelle fila Labour dopo la cospicua rimonta. È solo una fiammata prima della doccia fredda?

Inviterei alla cautela. In questo Paese spesso si ripete un modello, per cui i laburisti guadagnano terreno durante la campagna elettorale per poi puntualmente essere sconfitti dai conservatori. È vero che questi ultimi giorni sono stati fenomenali, non si era mai visto niente del genere. Non c’è stato un fenomeno di questo tipo nelle elezioni dagli anni Cinquanta. Ci sono delle regole di imparzialità durante la campagna elettorale, ed era chiaro che, una volta ottenuta una certa visibilità, Corbyn sarebbe emerso in una luce diversa. Nessuno è stato poi in grado di prevedere quanto inadatta si sarebbe rivelata Theresa May in questa campagna elettorale: è un’assoluta incompetente. Si dice che i suoi l’avrebbero spinta a convocare le elezioni anticipate quando ancora c’erano venti punti di vantaggio sugli avversari perché sapevano che ne avrebbero persi almeno metà, anche se non so quanto sia vero. L’altro elemento è la Brexit: c’era la convinzione che May si sarebbe aggiudicata il voto di tutti coloro che avevano votato leave, anche se per certi versi non era affatto certo. May ha fatto una campagna per il remain tiepida come quella di Corbyn: tre mesi fa sarebbe stato lecito presumere che il partito laburista avrebbe assunto una posizione pro remain, cosa che poi non ha fatto. E poi c’è il programma elettorale, le cui politiche si sapeva dai sondaggi condotti fin dagli anni Ottanta incontravano il favore dell’elettorato. Ma nessun leader del passato ha avuto il coraggio portarle avanti perché temeva la reazione negativa dei giornali. Tenendo conto degli attacchi terroristici, le prospettive statistiche reali di che May ne esca con una maggioranza aumentata sono assai scarse. E la sua autorità ne risulterà danneggiata.

Nell’ipotesi remota che Corbyn vincesse, riuscirà ad applicare le misure redistributive del manifesto o soccomberà alla prudenza?

Non vedo perché non dovrebbe fare del suo meglio per applicarle. Cercheranno di fermarlo in tutti modi, ma se davvero riuscisse a farsi eleggere, sarebbe nuova fase storica, gli iscritti al partito raddoppierebbero ancora, ci sarebbero un entusiasmo ed esaltazione straordinari, una situazione inedita in tutte le maggiori democrazie occidentali almeno dalla vittoria di Mitterrand dell’81. Corbyn e McDonnell hanno il pedigree politico per fare quello che sarebbe necessario in simili circostanze, mobilitare il Paese come in un’economia di guerra. Quello che uno come Gordon Brown non avuto il fegato di fare nel 2008, in parte anche perché aveva promesso ai suoi amici della City che non l’avrebbe mai fatto. Corbyn non è un politico di carriera, e questo fa parte della sua autenticità. Che invece abbia l’istinto politico necessario a costruire un’ampia coalizione necessaria a realizzare le riforme è un’altra questione. Né lui né McDonnell sono costruttori di coalizioni e in situazioni del genere servono alleati. Hanno annunciato che in caso di hung parliament (senza maggioranze assolute, NdR) cercheranno di formare un governo di minoranza senza formare una coalizione. Non credo possa funzionare, la chance di privare May di una maggioranza sono assai più alte di quelle per cui possano ottenerne una loro, avrebbero bisogno come minimo di una sessantina di voti.

E qualora Corbyn non vinca, ma faccia sostanzialmente meglio del 30,2 di Ed Miliband nel 2015? Significherà la totale estinzione del blairismo nel partito?

È la domanda più interessante in questo momento, dato che questo sembra essere lo scenario più probabile. Intanto va specificato che nel partito i non-corbynisti hanno delle differenze. Ma non credo che i blairiani possano tanto minacciare scissioni ora che la marea è cambiata e sono emarginati. Il fatto è che ormai si è dissolto il consenso per il progetto liberal-tecnocratico neoliberale che è stato egemonico a lungo e che non sarà certo resuscitato da uno come Macron, che sarà un disastro. Si parlava di scissione all’inizio delle elezioni finché il partito era dato al 27%, ma se i progressi fossero proporzionali alle proiezioni credo che molti della destra abbandonerebbero non solo il proposito di scissione, ma la politica tour court. Molti di lori diventeranno consulenti di management. La vera questione è cosa farà la destra più tradizionale del partito, quella facente capo ai sindacati e la cosiddetta soft left, che aveva sostenuto Owen Smith contro Corbyn l’anno scorso. Molti sono convinti che Corbyn non sarà in grado di fare meglio di Miliband o di Kinnock nell’87 e nel ’92. Credono in questa impossibilità come credono nella forza di gravità.

In che modo razionalizzare l’enorme impatto trasversale che due questioni come Brexit e separatismo scozzese stanno avendo sulle tradizionali affiliazioni partitiche?

Direi che l’elemento effettivamente nazionalistico in ambedue i casi sia relativamente debole. A sinistra i voti per la Brexit hanno ragioni economiche più che nazionaliste-xenofobe, l’Ue viene vista come agente della globalizzazione neoliberale, insomma molti strati della classe operaia che hanno votato leave pensano che sia colpa dell’Ue se le fabbriche chiudono. Associano vagamente questo con l’immigrazione, ma non lo vedono come una causa reale e non c’è quel tono apertamente razzista degli anni Ottanta. Si stanno riavvicinando al partito grazie a un’offerta programmatica sull’economia che ne allevi le terribili condizioni economiche. Ma naturalmente non sono loro il gruppo più nutrito di votanti per il leave: questo è rappresentato dall’elettorato delle zone più ricche e di fede Tory, che si rispecchiano nelle narrazioni del Telegraph e del Mail di indipendenza e sovranità. La Scozia è un altro caso interessante, il nazionalismo scozzese in senso assoluto è davvero debole, gli scozzesi sono innanzitutto socialdemocratici e sono stati persuasi dell’Snp grazie alle sue politiche socialdemocratiche, le stesse che rischiano di non vedere mai realizzate finché Westminster e l’Inghilterra restano con una fisiologica maggioranza Tory. E qualora Corbyn vincesse le elezioni il sostegno all’indipendenza crollerebbe del tutto, sotto al 40 per cento: non quello dell’Snp però, che resterebbe una garanzia per l’applicazione di quella stessa socialdemocrazia. Gli scozzesi preferirebbero stare in una Union socialdemocratica piuttosto che andarsene.