Si chiama Jeremy proprio come Clarkson, la controversa celebrità televisiva, ma le similitudini per fortuna finiscono qui. Politicamente, somiglia assai di più a Ken Livingstone, l’ex sindaco di Londra e anche lui famosa spina del fianco del partito laburista: una mina vagante a sinistra con grosso seguito personale, e quindi imbarazzo per la maggioranza centrista.

Deputato al parlamento nella circoscrizione londinese di Islington North, entrato quasi controvoglia nella rosa dei candidati al posto di un altro tanto per far vedere che il partito era pluralista, Corbyn presenta pericolose eterodossie (a parte naturalmente il socialismo): dal repubblicanesimo, che dalla maggioranza paese è ancora visto come commovente e velleitario, al più grave rifiuto di condannare l’Ira, visto come un gesto chiaramente antinazionale.

Eppure queste primarie per la leadership del partito laburista che, apertesi venerdì, chiuderanno il 10 settembre con lo spoglio due giorni dopo, Jeremy Corbyn rischia di vincerle davvero.

Almeno stando ai sondaggisti di YouGov, che prevedono per lui una vittoria del 53% addirittura al primo turno. Già il mese scorso, l’outsider Corbyn godeva di ben 17 punti di vantaggio sul suo rivale, Andy Burnham, ex-ministro del tesoro nel governo di Gordon Brown e attualmente ministro ombra alla sanità. Ora ci si aspetta un suo trionfo.

Sin dalla disastrosa sconfitta del maggio scorso, il partito vagola in un caos calmo d’indeterminatezza. Gli altri tre candidati centristi – Liz Kendall, Andy Burnham e Yvette Cooper – bizantineggiano su linee alternative alla tremebonda propensione a sinistra di Ed Miliband che sono virtualmente indistinguibili. Ed è proprio la crescente insofferenza della base per la percepita vacuità delle loro argomentazioni, diffusa e amplificata attraverso i network sociali, ad aver innescato un consenso a slavina per Corbyn, i cui comizi e incontri con l’elettorato ormai lasciano puntualmente centinaia di persone fuori per la capienza limitata degli spazi a disposizione.

È dunque un terremoto che sta scuotendo le fondamenta laburiste e mandando un brivido gelido lungo molte schiene. Prima fra tutte quella del convitato di pietra Tony Blair, dalla reputazione a brandelli eppure – grazie alla formidabile tripletta di vittorie che condussero alla più lunga permanenza Labour al timone del paese – considerato da molti ancora un faro di realpolitik.

Supportato da dichiarazioni altrettanto cupe del suo famigerato ex spin doctor Alastair Campbell, Blair ha scelto le colonne del Guardian per lanciare un duro e accorato monito a dirigenti, iscritti e attivisti perché non seguano Corbyn in quello che definisce un vero e proprio rischio di estinzione del partito. «Anche se mi odiate, vi prego di non votare per Corbyn» ha scritto Tony nel suo appello grondante panico.

Gli ha fatto eco Yvette Cooper rompendo un silenzio dei candidati centristi sul fenomeno Corbyn, mantenuto finora per timore di un’escalation delle divisioni interne. «Jeremy propone soluzioni vecchie a problemi vecchi», ha detto Cooper che, al pari di Blair non si cura del possibile effetto boomerang di simili attacchi.

Questo Cincinnato socialista di vecchia scuola sta dunque togliendo il sonno all’establishment economico finanziario. Potrebbe cancellarne la finora idilliaca frequentazione con i vertici del partito, dovuta alla sapiente tessitura di Blair il quale, coadiuvato da Gordon Brown e Peter Mandelson, ne cominciava entusiasticamente a frequentare i panfili negli anni Novanta. Quando lui, Jeremy, al massimo frequentava il salotto di Tony Benn, di cui era giovane seguace negli anni in cui il grande vecchio della sinistra Labour falliva la propria scalata alla leadership.

Ma è lo «spostamento fondamentale» in politica economica da lui propugnato l’incubo per l’ortodossia neoliberista: che potrebbe addirittura portare al ripudio dell’emblematica clausola IV che impegnava il partito alla nazionalizzazione dell’industria, quella di cui Blair si liberò precipitosamente vent’anni fa onde rendere il partito «eleggibile» e «di governo». E che lo vincola a realizzare davvero la proprietà comune dei mezzi di produzione.

Posizioni di sinistra socialista classica non dissimili da quelle del partito portato al potere nel 1945 da Clement Attlee: fine dell’austerity, più tasse ai ricchi, più corporation tax, protezione dello stato sociale, un giro di vite sull’evasione fiscale e soprattutto una ventata di opere pubbliche finanziate con denaro stampato dalla Banca d’Inghilterra ribattezzato «quantitative easing popolare».

Resta il proposito di ridurre il deficit, ma a un ritmo dal volto umano, e non attraverso tagli selvaggi.

Ancora più ambiziose le scelte in politica estera. Le sue posizioni su Putin, considerate esageratamente soft, gli hanno immediatamente attratto le accuse di essere l’utile idiota del grande orso russo; in medio oriente raccomanda un dialogo equilibrato tra le parti; cesserebbero gli attacchi aerei all’Isis e in Siria e le posture muscolar-militari di cui la Gran Bretagna è stata assidua praticante sin dal dopoguerra, qualunque fosse la maggioranza al governo.

La pubblica istruzione tornerebbe davvero pubblica: via le «free schools» e le academies; salterebbero le asfissianti tasse universitarie e le scuole private perderebbero i propri finanziamenti privilegiati. Il diritto alla casa sarebbe difeso calmierando i prezzi del mercato immobiliare londinese, in perpetua levitazione fino al prossimo crash.

Tutte misure che improvvisamente si vedono restituire lo status di possibilità dopo essere state a lungo relegate a dibattiti sull’archeologia delle idee. E proprio per questo enormemente destabilizzanti.

Tanto che, complice un meccanismo elettivo che permette teoricamente a chiunque di iscriversi al voto (nelle ultime 24 ore prima della chiusura ci sono state ben 160.000 domande d’iscrizione ) si è tornato a parlare di entrismo, la strategia di infiltrazione del Labour party da parte di frange radicali trotzkiste a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Insomma, che anche il rischio scissione sia palpabile è suffragato dalle voci di un putsch per esautorare Corbyn. E sempre venerdì il Guardian si è prodotto in un endorsement a Yvette Cooper entusiasmante come solo quelli scritti sotto la minaccia delle armi sanno essere.