Domani sapremo se il leader del Labour party britannico Jeremy Corbyn riuscirà ad ottenere la riconferma quale segretario in singolar tenzone con il moderato Owen Smith. Nel breve volgere di un anno, è la seconda volta che il partito laburista affronta le primarie.

Cosa di per sé già molto inusuale e, pertanto, interessante perché mostra come la classe politica rappresentata dall’élite partitica (parlamentari e membri della vecchia guardia blairiana) non si sia rassegnata ad aver perso il controllo del partito nel settembre del 2016.

E, nonostante l’entusiasmo in termini numerici suscitati dalla nuova leadership (da maggio 2015 a gennaio 2016 gli iscritti sono passati da poco più di 200mila a 388mila, giungendo ora a quota 500mila), la vecchia guardia blairiana, predominante in parlamento, è riuscita a ottenere una seconda tornata di primarie per cercare di ribaltare gli equilibri di forza interni al Labour.

È una partita politica molto importante e delicata, per diversi motivi di interesse più generale. In primo luogo, si tratta di una battaglia tra due anime del partito laburista e due modi di intendere la sinistra.

Smith rappresenta l’anima New Labour, cioè una «sinistra» che ha deciso di sostenere il mercato apportando alcune – limitate – correzioni redistributive volte principalmente a rassicurare il proprio elettorato tradizionale e a non ostacolare capitali e imprenditori.

Corbyn rappresenta l’anima più sociale (non a caso è appoggiato da numerosi rappresentanti sindacali) del partito e già l’anno scorso ha sorpreso molti vincendo le primarie post-elettorali. Dato per spacciato nel 2015, Corbyn si è guadagnato attenzione e rispetto grazie ad una campagna orientata a ricostruire relazioni con le porzioni della società rese più insicure e vulnerabili dalla crisi e rivelatasi molto efficace soprattutto perché molto partecipata da chi ha visto in lui una risposta alla deriva centrista del partito.

Non a caso, Peter Mandelson, già influente consigliere di Tony Blair, ha sottolineato che «una coalizione limitata a raccogliere il settore statale, gli attivisti sindacali, la classe media metropolitana, i giovani idealisti e le minoranze etniche urbane non [potrà rappresentare] mai una maggioranza elettorale», tralasciando che le fortune politiche di Barack Obama negli Usa scossi dalla crisi economica si sono fondate proprio su una cosiffatta coalizione sociale.

Inoltre, la partita in corso è importante perché potrebbe dirci qualcosa circa la forza dei nuovi partiti «liquidi» animati principalmente dagli eletti, quale quello costruito da Blair e dalla sua cerchia in oltre dieci anni di governo del paese.

La leadership di Blair ha favorito la trasformazione del Labour in partito di eletti che fanno politica in doppiopetto, in televisione e nei salotti della finanza – con un accento in perfetto stile Oxbridge -, anziché stare ad ascoltare i più deboli ed eventualmente scendere in piazza a fianco di lavoratori e lavoratrici vittime delle politiche di austerità.

Il confronto tra i due candidati è anche importante perché pone al centro della discussione il rapporto tra partito e movimenti: molto tenue, se non addirittura inesistente nel caso di Smith; molto più articolato e fertile nel caso di Corbyn che ha in più occasioni prestato ascolto e attenzione alle proposte provenienti da altri settori della società civile.

Nel caso in cui Corbyn dovesse spuntarla, sarebbe una vittoria significativa di un modello di partito sociale che avrebbe molto da dire anche ad altri partiti della tradizione socialista europea o che ad essa fanno riferimento.

Come ad esempio al Partito democratico, che sta attraversando una crisi, forse non ancora del tutto manifesta, simile a quella che ha toccato il partito laburista inglese.

Certo, forse il Corbyn d’Italia non si intravede ancora. Ma mai porre un freno alla (terrena) provvidenza.