Manca ormai meno di una settimana alle elezioni politiche anticipate più importanti e straordinarie della storia britannica recente. E di fronte alla titubanza di Theresa May, che ieri non si è unita alle critiche dell’Ue nei confronti di Trump e della sua decisione di ritirare gli Usa dagli impegni sul contenimento delle emissioni sanciti dall’accordo di Parigi, lo stesso Jeremy Corbyn ha mollato gl’indugi.

Definendola, in un discorso a York, «sottomessa» al presidente americano, l’ha accusata di venir meno ai doveri della carica.

«Davanti alla possibilità di presentare un fronte unito con i nostri partner internazionali ha invece optato per il silenzio e la sottomissione a Donald Trump. È un’inadempienza al suo dovere nei confronti del Paese e del pianeta». «Non è questa la leadership che serve alla Gran Bretagna per negoziare la Brexit» ha poi aggiunto Corbyn, che i sondaggi continuano a dare in crescita.

L’ultimo, YouGov, sparato in prima pagina dal Times di ieri, prefigurava il cosiddetto hung parliament, un parlamento «appeso» dove nessuno ha i numeri sufficienti per formare un governo e dove i Tories perderebbero venti seggi: il peggior incubo di May, che si troverebbe così ad aver sconsideratamente scommesso su elezioni che, pur in caso di probabile vittoria, potrebbero erodere la sua maggioranza anziché allargarla.

Il Labour ha già detto che tenterà la (quasi impossibile) via di un governo di minoranza, senza cioè formare coalizioni, con il Snp, i Verdi o i Libdem.

Ma il semplice fatto che si possano fare simili speculazioni a sei giorni dalle urne, è in sé niente meno che straordinario.

Sulla Brexit, Corbyn, aggredito mesi fa dai moderati del suo partito per non essere caduto eroicamente sulle barricate del Remain, ha la posizione più sensata: riconoscimento immediato di tutti i cittadini europei residenti in Uk e attitudine aperta con Bruxelles per evitare a tutti i costi di scivolare fuori dal mercato unico, cosa che May invece sta minacciando qualora gli accordi si rivelino svantaggiosi per il Paese.

Il leader Labour non è mai stato il tipo di politico che ama demonizzare – e nemmeno attaccare – l’avversario. Davanti al plotone d’esecuzione dei media nazionali, schierati contro di lui con una compattezza fin troppo sovietica per essere un Paese ritenuto la culla della stampa libera, ha finora mantenuto un’impassibilità da samurai. Ancor prima di essere una persona naturale e gradevole, è un attivista nato per fare campagna, è il suo elemento: e anche per questo Corbyn sta vincendo proprio nel terreno giudicato inizialmente per lui più infido, quello del sapersi mostrare all’altezza dell’importanza dell’ufficio di primo ministro.

A Londra, dove il partito sembra in corsa per aggiudicarsi il voto di moltissimi giovani, gli ultimi sondaggi YouGov riportati dall’Independent lo darebbero addirittura davanti a May, che sulla propria immagine prime ministerial aveva giocato tutto. Per cui è improvvisamente credibile sentirlo parlare nel ruolo ritenuto fino a pochi giorni fa per lui irraggiungibile. Certo che accoglierebbe Trump a Downing Street: cercherà anzi di persuaderlo a cambiare idea davanti a una tazza di tè dello Yorkshire.

Insomma, la situazione presenta uno scenario che sarebbe parso surreale appena due mesi fa.

Certo, le distanze nei sondaggi, che restano sondaggi ora come quando i Tories parevano imprendibili, non avrebbero potuto accorciarsi così tragicamente senza l’incompetenza del cosiddetto Theresa’s Team, unitamente al fatto che colei è una campaigner per forza.

Ed è stata la svolta di un paio di settimane fa, con la presentazione del disastroso manifesto elettorale sul quale May – che queste elezioni ha voluto con l’alibi della Brexit pur di finire un Labour agonizzante regalando così al paese dodici anni di dominio conservatore – ha fatto una catastrofica marcia indietro (una «tassa sulla demenza» troppo onerosa per gli anziani) a dare al Labour l’impeto per osare l’impossibile.

Al punto da strappare a Corbyn una promessa elettorale che, almeno in Italia, nessuno si sognerà mai più di fare: un milione di nuovi posti di lavoro entro la prossima legislatura.