Nel gennaio del 1980 Gay Talese aveva da poco chiuso le ricerche che gli erano servite per terminare quel poderoso compendio della sessualità contemporanea che è La donna d’altri (e che sarebbe uscito di lì a pochi mesi) quando ricevette da Aurora, in Colorado, anonima, una lettera che gli sottoponeva una storia al limite del paradosso: da quindici anni, attraverso un complesso sistema di finte griglie per l’aerazione che davano su una soffitta di cui nessuno, se non la moglie, conosceva l’esistenza, l’estensore aveva spiato la vita privata e le abitudini più intime di un considerevole numero di ospiti del Manor House, il piccolo motel di cui era proprietario: «ho visto portare a compimento», confessava, «la gran parte delle emozioni umane, il ridicolo e il tragico. Sessualmente sono stato testimone, osservatore e studioso di prima mano del miglior sesso spontaneo, extra-laboratorio tra coppie e del grosso delle altre deviazioni sessuali concepibili».
Da questo segreto punto di osservazione era nato uno sterminato archivio che ora l’uomo offriva a uno dei padri del new-journalism a condizione, però, che la sua identità non fosse svelata. Provato dalla sua ultima fatica e fedele ai suoi principi di reporter (offrire, sempre e comunque, ai propri lettori, il massimo grado di verità possibile), Talese non poté accettare il dono se non in via strettamente riservata, ma a lungo rimase il custode privilegiato dell’acribia di questo strano personaggio che solo nel 2013, venduto da tempo il motel, acconsentì a rendere pubblica la sua vicenda: ne venne fuori un articolo per il «New Yorker» e, a seguire, un volume ora tradotto in italiano da Francesco Pacifico: Motel Voyeur (Rizzoli «la Scala», pp. 204, € 19,00).
«Era possibile», azzarda Talese, «che Gerald Foos – questo il nome dell’uomo – avesse bisogno della notorietà: il suo ego, soprattutto adesso che si rendeva conto della sua età, del peggioramento della sua salute, lo spingeva a voler farsi conoscere per ciò che aveva visto e scritto nei molti anni da osservatore privato, e la cosa aveva più presa su di lui della paura di essere scoperto». Pur composto, per la maggior parte, da brani espunti dall’incredibile mole di pagine trascritte da Foss, il libro è Gay Talese allo stato puro, perché se una dote fondamentale del grande giornalista è quella di far parlare non solo i fatti ma anche le persone, difficilmente il voyeur del Manor House avrebbe potuto trovare un interlocutore migliore: per esserne il primo e più coinvolto testimone, Talese si cala interamente nell’intrico ossessivo-compulsivo di Foss, sospende il giudizio morale sulla questione generale di un essere umano che vive per spiare gli altri esseri umani e tenta di portarne alla luce origini e declinazioni particolari.
Spintosi fino a creare un rudimentale ma quanto mai efficace laboratorio domestico per lo studio dei comportamenti umani, Foss non è, come si potrebbe banalmente pensare, un «sordido guardone» ma, piuttosto, quello che davvero crede di essere, ovvero «un pioniere della ricerca» paragonabile ai «rinomati sessuologi del Kinsey Institute e del Masters & Johnson Institute». E, difatti, al di là dei singoli episodi riportati ciò che sorprende sono i risultati complessivi del suo lavoro: osservando nell’ombra persone che non sanno di essere osservate, Foss incrocia dati, stila statistiche e registra cambiamenti sociali nella sfera delle relazioni umane; per di più, egli è la prima cavia di se stesso, tanto che nel tempo i suoi resoconti virano alla terza persona singolare quando di sé scrive «il Voyeur», nel tentativo di raffreddare l’inevitabile impatto emotivo della sua attività. Perché, ed è questo uno degli elementi di maggior interesse, in prospettiva, di Motel Voyeur, scrutare dal vivo nel buco della serratura della vita altrui è ben altra cosa rispetto al voyerismo virtuale cui oggi siamo abituati (non solo quello occulto di «una società sorvegliata da telecamere di strada, droni, e dagli occhi della National Security Agency», ma anche, soprattutto, quello spettacolare dei reality-show e dei social network): un’esperienza affascinante e terribile che, attraverso gli altri, ci svela ciò che siamo e, così facendo, forse, lo distrugge.