Il binomio calcio e musica è uno dei capisaldi della cultura popolare britannica, fin dal secolo scorso. Si dice che quando le hit dei favolosi quattro di Liverpool iniziarono a riecheggiare sulle affollate gradinate di Anfield questa relazione fu ufficialmente consacrata, ma è indubbio che queste due passioni popolari andassero a braccetto anche da prima.

Difficile allora non leggere la finale di Champions League tutta inglese tra Manchester City (favorita) e Chelsea (giunta un po’ a sorpresa all’atto conclusivo) in programma oggi a Oporto sotto una lente anche musicale, tirando in ballo le due band più iconiche del Brit Pop anni Novanta. Ovvero gli Oasis e i Blur, la Madchester molto working class dei litigiosissimi fratelli Gallagher contro la Londra sofisticata di Damon Albarn e dei suoi accoliti. È un po’ la rivincita, e che rivincita, dell’ormai lontana estate 1995, quando non c’erano ancora gli mp3 e i due gruppi si sfidarono all’ultimo sangue a colpi di singoli. Il 14 agosto fu emesso il verdetto che, come si dice enfaticamente in questi casi, tenne con il fiato sospeso la nazione: Country House dei Blur superò per 274mila copie vendute a 216mila Roll with it degli Oasis. In realtà per i londinesi fu una sorta di vittoria di Pirro, dal momento che il loro album The Great Escape ebbe meno successo di quello dei rivali, (What’s the Story) Morning Glory?, che fece entrare i ragazzi di Manchester nell’iperuranio della musica pop.

Se vogliamo anche le traiettorie delle due band non furono più troppo allineate, perché fino allo scioglimento causa «dissidi familiari» nel 2009 gli Oasis erano avanti con un certo margine a livello di popolarità globale.
Più esplicito anche il loro legame con il football e con il City in particolare. A cominciare dalla cover del disco d’esordio Definitely Maybe, in cui appare la scapestrata ex stella del City Rodney Marsh, proseguendo per i primi mitici concerti al defunto Maine Road, la vecchia e tanto amata casa dei Light Blues, fino all’esplosione definitiva con le canzoni più famose a fare da colonna sonora al nuovo Etihad Stadium e l’amicizia con Pep Guardiola e altri esponenti della squadra. Come è nello stile dei Gallagher, il loro è un tifo strabordante, sopra le righe e che non lesina contumelie nei confronti dell’avversario. Un po’ come accadde quella celeberrima estate del 1995, con inopinati riferimenti a brutte malattie come l’AIDS, anche se ora gli screzi tra le due fazioni pare si siano molto ridimensionati. Damon Albarn è più discreto nella sua professione di fede calcistica, sebbene sembra sia abbonato al Chelsea da oltre due decenni e di certo non si sarà limitato nei festeggiamenti per la vittoria in Champions League del 2013, l’unica finora nella storia dei Blues. Una gioia «condivisa» con Phil Daniels, il protagonista del film di culto Quadrophenia e dell’altrettanto di culto canzone dei Blur Parklife, cantata insieme al buon Damon, ma non con gli altri membri della band, dei quali nessuno sostiene il Chelsea.

La disfida di Oporto potrebbe rappresentare invece la definitiva affrancazione dalla mediocrità calcistica degli ex «vicini rumorosi», come il grande allenatore del Manchester United Alex Ferguson definiva in maniera sprezzante i rivali cittadini prima che arrivassero i petrodollari dello sceicco al Mansour. Dopo cinque campionati e innumerevoli coppe vinte negli ultimi dieci anni, infatti, adesso al City manca l’affermazione più ambita.
Certo, negli anni Novanta sia i Gallagher che Albarn erano molto più convinti di arrivare ai vertici delle charts che le loro squadre potessero sbaragliare la concorrenza in Europa.

Ma la Premier League era solo agli albori e nessuno aveva mai sentito mai parlare di uno sceicco di Dubai o di un oligarca russo di nome Roman Abramovich. Anzi, se il Chelsea almeno stava ridiventando glamour e di lì a poco avrebbe accolto eroi nostrani come Luca Vialli e Gianfranco Zola, il Manchester City era la squadra perdente per definizione. Altri tempi, davvero.