Little Amal, la grande bambola alta 3,5 metri simbolo dei rifugiati siriani, che ha fatto più di 8mila chilometri per attraversare l’Europa, ieri ha partecipato alla Cop26 di Glasgow. Amal non parla, ma con la sua presenza che è un monito e un grido d’allarme, ieri ha vegliato sulla giornata dedicata al legame tra crisi climatica e di genere. «Il clima è una questione femminista» ha detto la prima ministra scozzese, Nicola Sturgeon, introdotta dalla speaker del Congresso Usa, Nancy Pelosi, ha ricordato che le ragazze sono maggioranza tra i più poveri, che sono i più colpiti dal cambiamento climatico.

È intervenuta anche la deputata Usa Alexandria Ocasio-Cortez: dopo aver ricordato che «America is back» sul fronte del clima, ha sottolineato che l’approccio dei democratici statunitensi «è cambiato» rispetto a un decennio fa. Ormai, hanno voltato le spalle a «soluzioni puramente basate sul mercato», e si schierano per collegare la lotta al riscaldamento climatico con «la giustizia e l’occupazione». Per Ocasio-Cortez «non possiamo limitarci a proseguire la decorbonizzazione» senza fare in modo che la trasformazione vada a vantaggio della classe lavoratrice, dei più vulnerabili, delle comunità più coinvolte, dei neri, delle donne.

John Kerry, rappresentante degli Usa, ha di nuovo preso di mira Trump, che ha fatto un «errore vendicativo» senza senso economico né scientifico, uscendo dall’Accordo di Parigi. Per Keyy, la Cop26 è un «test», un «check-point», è «diversa e meglio» del passato, «c’è un vero senso dell’urgenza». Kerry ha la «speranza» di poter convincere la Cina a contribuire, malgrado l’assenza del suo leader. Ma, ha ammesso, ci sono ancora «alcuni punti» in discussione. Al centro delle discussioni, il rapporto allarmante del Climate Action Tracker, un’organizzazione indipendente: prima di Parigi, il mondo era avviato verso un aumento di 6 gradi per fine secolo, dopo Parigi eravamo a +4, adesso siamo a +2,4. Ma questa cifra è fatta di «false speranze», perché gli impegni restano prudenti per il 2030, mentre le promesse si affollano per anni lontani, la Cina si è impegnata per una neutralità carbone nel 2060, l’India nel 2070.

Secondo un rapporto del Programma dell’Onu per l’Ambiente, se si prendono in considerazione i nuovi impegni presi dai paesi a Glasgow o poco prima (152 paesi responsabili dell’88% delle emissioni di Co2 hanno adottato un programma, 33 in più rispetto agli anni scorsi) l’obiettivo di 1,5 gradi resta lontano: per il Pnue siamo ancora a +2,7, al meglio +2,1, se verranno mantenute tutte le promesse di neutralità carbone. Ma, aggiunge l’agenzia Onu, «stando alla mancanza di trasparenza sulle promesse di neutralità carbone, all’assenza di un meccanismo per renderne conto e di un sistema di verifica, e del fatto che ci sono pochissimi impegni per il 2030 che mettono chiaramente i paesi sulla strada della neutralità carbone, arrivare agli obiettivi resta incerto».

Il presidente della Cop26, Alok Sharma, non è ottimista, a pochi giorni dalla fine della riunione: ci sono stati dei «progressi» ma «chiaramente non sono abbastanza». Per Greenpeace, il rapporto del Climate Action Tracker è «devastante». Ieri, c’è stato un accordo tra 22 paesi e la Commissione Ue per favorire gli investimenti nelle energie pulite, su «4 missioni di innovazione» (facilitare la transizione urbana, eliminare le emissioni dell’industria, rinnovare la captazione di Co2, produrre combustibili puliti).