Le vittime collaterali del caos climatico si contano a migliaia, ormai, anche nel Nord del mondo. Lo rivela il rapporto Global Climate Risk Index 2020, diffuso a Madrid in occasione della Cop25 da German Watch, un istituto tedesco di analisi e azione «per l’equità globale e la sopravvivenza». Il risultato di oltre 12.000 eventi meteorologici estremi (ondate di calore, siccità, alluvioni, inondazioni, cicloni) registrati nel ventennio 1999-2018 è una strage: circa 495mila vittime umane, e perdite economiche superiori ai 3.500 miliardi di dollari (in Ppa, parità di potere d’acquisto).

Per compilare la classifica dei più sfortunati, il Climate Risk Index (Cri) tiene conto di quattro indicatori: numero assoluto di morti, numero di morti ogni 100mila abitanti, perdite totali in dollari (Ppa) e perdite per unità di prodotto interno lordo.

SU QUESTA BASE, NEL 2018 i paesi globalmente più colpiti sono stati: Giappone e Germania (ondate di calore e siccità), Filippine (ciclone). Seguono Madagascar, India, Sri Lanka, Kenya, Ruanda, Canada, Fiji. L’India è la prima per numero di vittime (oltre duemila) e per perdite economiche. Nel decennio fra il 1999 e il 2018 (Long-Term Climate Risk Index), i dieci paesi globalmente più danneggiati da eventi estremi sono stati Puerto Rico, Myanmar, Haiti, Filippine, Pakistan, Vietnam, Bangladesh, Thailandia, Nepal e Dominica.

MA, SE SI GUARDA AL DATO del numero assoluto di morti riconducibili a eventi di questo tipo, nell’elenco generale di tutti i paesi (allegato al rapporto) l’Italia nell’arco dei due decenni si colloca addirittura al sesto posto – e al diciottesimo quanto a perdite economiche. E nel 2018 siamo stati ventottesimi per numero di morti e ottavi per la cifra dei danni. Secondo quanto dichiarato da German Watch all’Ansa, in Italia fra il 1999 e il 2018 i morti imputabili direttamente o indirettamente a eventi estremi sono stati 19.947 e le perdite economiche pari a 32,92 miliardi di dollari; nel 2018, 51 morti e 4,18 miliardi di dollari di perdite.

ANCHE A NON RITENERE PRECISI i dati del Cri, è certo che gli eventi anomali disastrosi sono in buona parte dovuti al riscaldamento globale dell’atmosfera, come ripete l’Ipcc (gruppo intergovernativo di scienziati sul clima). Da qui l’esortazione da parte di German Watch da un lato a fornire risorse finanziarie soprattutto per i più poveri e vulnerabili, e meno responsabili, dall’altra a sforzi di mitigazione ben più importanti. Del resto, questo 2019 secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) chiude malamente – con +1,1° C rispetto al periodo preindustriale -, il decennio più caldo della storia (da quando vengono registrate le temperature).

A MADRID È STATO PRESENTATO anche l’annuale rapporto Global Carbon Budget 2019, compilato da una lunga lista di esperti di organismi internazionali e di università: un bilancio del carbonio che nell’ultimo anno registra una crescita un po’ rallentata nelle emissioni di CO2 rispetto ai due anni precedenti, principalmente per il calo del consumo di carbone negli Usa e in Europa (compensato però da un aumento del ricorso al gas), insieme alla riduzione della domanda di combustibili fossili in Cina e India (anche per una crescita economica più contenuta).

COMUNQUE «NON C’È NULLA da festeggiare» hanno spiegato gli esperti: le emissioni del 2019 sono del 4% più elevate rispetto a quelle del 2015, mentre occorre un netto cambiamento strutturale. Lo studio ha dato i voti ai vari paesi sulla base della sufficienza o meno dei loro impegni di riduzione rispetto all’orizzonte obbligato degli 1,5° C di aumento massimo. Ma le pagelle non tengono conto del livello attuale e storico delle emissioni – per paese e pro capite -, che è spaventosamente disuguale. Insomma risultano sufficienti tutti i paesi dell’Unione europea mentre vengono bocciati Burkina Faso, Afghanistan, Bhutan, Yemen…

INTANTO LA «VOLONTÀ POLITICA» di agire «con onestà, responsabilità e coraggio, con più risorse umane, finanziarie e tecnologiche» è stata sottolineata da papa Francesco nel messaggio inviato ai partecipanti alla Cop 25, insieme al rimprovero per un impegno ancora «troppo debole». Dal canto suo, la delegazione cinese punta al «completamento dei negoziati sulle restanti questioni relative alle regole di attuazione dell’accordo di Parigi».

UN ACCORDO, QUELLO DEL 2015 alla Cop 21, che prevede fra gli strumenti il commercio delle quote di emissione, considerato un inganno da molti ambientalisti. Taglia corto Dipti Bhatnagar della rete Friends of Earth International: «Le uniche azioni serie sono un allontanamento totale e immediato dai combustibili fossili e un imponente flusso finanziario dal Nord globale al Sud globale». Non piace anche il fatto che l’Europa sia teatro di quattro consecutive conferenze sul clima (la prossima a Glasgow), con il risultato di «minare la partecipazione del Sud».