La polizia messicana è una categoria rappresentata spesso dal cinema e la televisione, dove è frequentemente associata a quella dei narcos – a cui «fa la guerra», magari al fianco delle forze di polizia statunitensi, o dai quali è contaminata. Può anche capitare che le due «categorie» si sovrappongano del tutto, come nel racconto dello splendido El Sicario – Room 164 di Gianfranco Rosi.

DI CERTO c’è che quello della polizia messicana è uno dei mestieri più pericolosi al mondo, come raccontano i protagonisti di Una pelìcula de policìas di Alonso Ruizpalacios, distribuito da Netflix e dunque unico titolo del concorso della Berlinale – dove ha vinto il premio al miglior montaggio – a trovarsi nel suo ambiente «naturale» con la proiezione online.

A metà fra fiction e documentario, attraversato da immagini e musiche che giocano con i luoghi comuni del cop movie (il titolo internazionale del film), Una pelìcula de policìas si apre all’interno di una macchina di pattuglia per le strade di Città del Messico. È il veicolo di Teresa, che fa questo lavoro da 17 anni e che in servizio ha conosciuto il marito Montoya, insieme a lei il protagonista del film. Entrambi si raccontano davanti alla macchina di Ruizpalacios – cosa spinge le persone a entrare nella «Corporacìon»? Come sopravvivere all’ostilità della gente? Come funziona un’istituzione notoriamente corrotta e che per tanti rappresenta solo l’unica speranza di avere uno stipendio? – mentre sono in servizio impegnati in piccoli e grandi problemi: una sparatoria, dei vicini che chiamano la polizia per una festa troppo rumorosa, dirigere il traffico.

MA I VERI Teresa e Montoya li incontriamo solo nella seconda parte del film, quando il regista «smonta» la sua finzione e ci mostra gli attori (Mónica Del Carmen e Raúl Briones) che hanno interpretato i due poliziotti della «pattuglia dell’amore» – come la chiamano ironicamente i colleghi – alle prese con il processo di preparazione della parte: 101 giorni di formazione nell’accademia di polizia, «infiltrati» fra i veri poliziotti come questi ultimi fanno con le associazioni criminali. Ruizpalacios si diverte a giocare con l’idea di un parallelo fra gli attori e i poliziotti che all’accademia devono simulare le situazioni in cui si troveranno nella vita reale, o magari la stessa dedizione alla missione di «proteggere» i cittadini.

Come nel suo precedente Museo il regista erige una struttura roboante e complessa che nasconde un vuoto: di reale vicinanza ai personaggi e alle persone – alla loro umanità e al contempo ambiguità – di prospettiva sull’istituzione che racconta, sulla corruzione che la attraversa e la violenza di cui è oggetto e soprattutto veicolo, di interesse per ciò che le immagini possono raccontare oltre una superficie curata e in assenza di parole.