In un articolo pubblicato sulla rivista «Foreign Policy» nel 2002, lo studioso Douglas McGray metteva in risalto come certa parte della produzione culturale giapponese dei due decenni precedenti era riuscita a penetrare ed influenzare l’immaginario collettivo dell’Occidente.
In particolare l’autore concentrava la sua attenzione sull’esplosione di popolarità al d fuori dell’arcipelago di anime, manga, J-pop, cucina, cinema, moda ed in generale le culture giovanili provenienti dal Sol Levante. Nell’articolo comparivano due parole, «cool» e «Japan», due termini che con l’andar degli anni sarebbero stati accoppiati sempre di più per descrivere ed etichettare questa fioritura e produzione culturale proveniente dalla terra giapponese. Una produzione così vasta, eterogenea e spesso conflittuale e critica nei confronti del Giappone, finì però per essere catturata nelle reti del del governo in carica che ne intravide le possibilità economiche e soprattutto quelle di propaganda.

 
Se le potenzialità di un «marchio Giappone» erano già state intraviste dallo stato giapponese nei primi anni del secolo, è solo nel novembre del 2013 che il primo ministro giapponese Shinzo Abe ed il suo governo creano Cool Japan, un fondo, finanziato dalle tasse dei cittadini, che si prefigge di promuovere il «softpower» dell’arcipelago all’estero. Il modo in cui il Giappone e la cultura giapponese in generale viene percepita all’estero resta, purtroppo ci sentiamo di aggiungere, un momento di rispecchiamento ancora troppo sentito e considerato importante dalla stragrande maggioranza dei giapponesi.
Un processo di formazione collettiva ed identitaria che è un nodo cruciale attorno a cui si avvinghiano e passano diverse problematiche dell’arcipelago, non ultime quelle nazionaliste. Anche per questi motivi il progetto Cool Japan riveste per la classe politica dominante un’importanza che va ben oltre l’elemento economico e di prestigio in sè e che è diventato in questi quattro anni di vita uno specchietto tornasole di molti dei problemi che affliggono la società giapponese e la sua classe dominante.

 

 

Alcune critiche erano già state sollevate fin dal lancio del progetto, critiche provenienti anche da parte giapponese che ne mettevano in discussione l’utilità e soprattutto la filosofia di fondo. Pur essendo innegabile che un progetto che si prefigge di far conoscere ed esportare all’estero certi aspetti della cultura pop di un paese abbia anche degli aspetti positivi, con iniziative meritevoli ed interessanti, è altrettanto chiaro come lo stretto legame con un governo dichiaratamente di destra non possa che creare dubbi e polemiche.

 
Di qualche settimana fa è la notizia che alcune dipendenti femminili del fondo avrebbero subito delle molestie sessuali da parte di dirigenti appartenenti alla compagnia governativa. Durante una serata al karaoke, pratica abbastanza comune per le compagnie giapponesi, le donne avrebbero partecipato ad un gioco che, a loro insaputa, le avrebbe forzate ad avere un appuntamento con uno dei dirigenti o a fare e portare loro un regalo.

 
Fortunatamente nessuna delle due opzioni si è realizzata, al contrario le impiegate hanno deciso non solo di rifiutare, ma anche di dare all’accaduto il giusto peso politico e sociale, formando un sindacato prima e poi rivelando poi l’accaduto ai media. Anche in un’organizzazione che si vorrebbe al passo coi tempi e che si prefigge di presentare al resto del mondo il lato moderno e positivo del Giappone nella sua struttura più profonda rimane ancora legata a modelli maschilisti, soprattutto nel mondo del lavoro.
matteo.boscarol@gmail.com