Tra le cose che ci ha insegnato il Novecento, la più dura a morire è l’idea che l’abisso sia il paesaggio di fronte a cui bisogna posizionarsi per raccontare il tempo che viviamo. Hanno provato a dirlo il modernismo prima e il postmoderno poi, suonando le campane a lutto, e poi ridendo con una smorfia grottesca di fronte alla tragedia di un secolo cruento. Infine è arrivata l’era dello shopping, in cui ricordare è un dovere, ma dimenticare aiuta a vivere meglio: è questa la tragedia con cui si sono aperti gli Anni Zero.
Morte di un artista, di Álvaro Enrigue (La nuova frontiera, nell’ottima traduzione di Gina Maneri, pp. 160, euro 16,00) racconta, in fondo, questa insensatezza terminale. Pubblicato in Messico nel 1996, arriva in Italia solo adesso: il romanzo si concentra sulla tragedia di un artista ridicolo, Sebastián Vaca, giovane di belle speranza annichilito dal sedicente mecenate Aristóteles Brumell, un miliardario che è anche una sorta di curatore dandy, cui interessa discettare di arte, ma anche coltivare i suoi piaceri.

Eversiva trascuratezza
Il vuoto è il suo spazio vitale e al tempo stesso ciò che egli stesso produce. «Si tratta di chiacchierare affacciati sul vuoto, disse Brumell. (…) Stiamo tutti cercando di essere lucidi nonostante la paura del vuoto». L’abisso sul quale si affaccia Sebastián Vaca è in realtà proprio quello di Brumell, ritratto grottesco di un ventesimo secolo stremato, che cerca, come lasciapassare, di produrre solo brillanti epigrafi tombali. Quel vuoto gli sarà letale, e l’epigrafe non la leggerà nessuno: al suo funerale «gli amici (…) furono i primi a gettarsi sui vassoi che, nonostante gli sforzi dei camerieri, nessuno aveva osato toccare».

Sebastián Vaca, che è un personaggio memorabile, finisce per diventare una specie di sintomo della decadenza. Di chiara derivazione kafkiana, Vaca in fondo è un artista della mediocrità. Non può fare altro, forse, che finire male. È, tutto sommato, passivo, non sgomita per aver successo, è persino educato e rispettoso. La mediocrità è il suo campo: non a caso, la sua opera più premiata si intitola La casa di mia nonna, installazione involontaria. E viene così descritta: «Riproduzione integrale e fedele di un antiquato salotto borghese messicano. (Concept rubato a E. Kienholz)». Anche l’originalità è un vecchio arnese del passato. Sebastián Vaca frequenta piuttosto una «moderata trascuratezza», estetica a personale. È questo, in verità, il suo tratto più eversivo in un’epoca a effetto: ed è questo che fa di lui la vittima perfetta di Brumell, il quale ne subisce il fascino e proprio perciò vuole vederlo soccombere ai suoi piedi.

Così Brumell descive Sebastián Vaca: «era un uomo opportuno, corretto e simpatico (…), sempre pronto ad adeguarsi alle circostanze. (…) Forse il tratto più rilevante della sua personalità era una moderata trascuratezza nell’igiene personale: si radeva meno di quanto il suo sistema pilifero consigliasse. (…) Era privo di genio. L’opera con cui aveva vinto la biennale di Pachuca era il suo lavoro migliore, e non era nient’altro che una pallida imitazione della celebre Roxy’s di E. Kienholz».

Sebastián Vaca è un oggetto artistico, più che un artista, e la sua umanità è modernariato buono per essere esibito, non interessa in quanto tale: «Soppesai la qualità materiale della sua presenza e riconobbi nei suoi aromi l’eloquente densità espressiva dei migliori object retrouvés». L’uomo – l’artista – come un pissoir da esposizione.

Da qui la discesa all’inferno di Vaca, ospite nella villa di Brumell e sua vittima perfetta. Prima vezzeggiate, poi ridotto a vedersi convocare soltanto insieme al personale, infine tollerato, viene lasciato a rosicchiare il suo niente in una stanza. Quello che Álvaro Enrigue disegna in questo romanzo – che ne segnò l’esordio sulla scena letteraria messicana – è un ritratto dell’artista come figura marginale. Vaca è in fondo una sorta di utile idiota, funzionale all’opera del suo curatore. Ridotto a poco più di un nulla, messo in condizione di non nuocere e sedato a botte di droghe dal padrone, l’artista finisce la sua vita lucidando scarpe altrui. È una performance estrema, che fa di Vaca una specie di vittima offerta in sacrificio a un mondo che di quella offerta non sa più cosa farsene. Anche il rito è puro gioco: «La morte di un trofeo purifica. (…) Il divertimento sta nel ribaltare le condizioni che all’inizio del gioco favoriscono la vittima. (…) Chi caccia per gioco lo fa per dimostrare a se stesso che può entrare e uscire dalla civilità».

Morte di un artista è ormai un classico messicano, nonostante Álvaro Enrigue non abbia ancora compiuto cinquant’anni. Lo è a buon diritto, perché Sebastián Vaca è un personaggio che resta scolpito nella pagina, la vittima sacrificale di un secolo che dell’arte sembra poter fare a meno. È una via di mezzo tra un anti-Bartleby e uno Stoner: un uomo che in fondo direbbe sempre di sì, se solo qualcuno fosse interessato a chiedergli qualcosa. Invece soccombe, nello spazio innocuo e inoffensivo in cui è stato confinato. Solo del proprio niente, dunque, è kafkianamente artista: dalla propria fine, alla fine di un secolo esaurito.

«Da quando sono morti i grandi maestri del Novecento – dice Brumell – siamo in un limbo in cui ciò che conta è la sorpresa e la capacità di scandalizzare». A furia di soprendere – sembra dire il libro di Enrigue – non ci si stupisce più, e il ready made che Vaca diventa dentro la casa del mecenate miliardario, non interessa più nessuno. Resta il suo portfolio, che più che divertire immalinconisce, con la sua suddivisione tra Installazioni premiate, Esposizioni esposte senza infamia e senza lode, Installazioni impossibili per il momento e Sculture, che l’artista non ha ancora avuto il tempo di fare ma che farà. L’arte contemporanea – questo fa pensare il portfolio di Sebastián Vaca – si sbraccia per essere guardata, e soccombe, non vista, sotto il peso del ridicolo. È pirandellianamente umoristica: stringe un poco il cuore.

Alla fine del millennio
Ben venga, dunque, il recupero da parte della Nuova Frontiera di questo romanzo, così completamente novecentesco ma al tempo stesso perfettamente in sintonia con quella sorta di sfinimento che è proprio dell’inizio millennio. Segue, a tre anni di distanza, l’uscita, piuttosto in sordina, di Morte improvvisa, pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Irina Bajini. Ai tempi si pensò che il Premio Herralde, vinto da Enrigue per il romanzo del quale aveva reso protagonisti Caravaggio e Quevedo, potesse aiutarne il successo; ma il Siglo de Oro, familiare ai lettori di lingua spagnola, ha forse allontanato quelli italiani.

È questa forse l’occasione per iniziare la scoperta di un autore importante, riconosciuto in tutto il mondo: insieme a Juliàn Herbert, Yuri Herrera e Emiliano Monge, Guadalupe Nettel, Valeria Luiselli, Álvaro Enrigue è quanto di meglio abbia prodotto la letteratura messicana in questi ultimi vent’anni.