Risolvere la crisi greca? Malgrado le dichiarazioni, i dirigenti europei cercano soprattutto di «passare l’estate»: trovando una soluzione temporanea, senza trattare il problema di fondo. Si continua come prima, con il rischio che le popolazioni, esasperate da come quest’Europa si è andata configurando, finiscano per eleggere partiti nazionalisti di estrema destra.

La crisi interna di cui soffre l’Europa si è rivelata nella deflagrazione finanziaria internazionale del 2007-2008. Ma cova sin dalla creazione della moneta unica, economicamente prematura e istituzionalmente non sostenibile. Affinché l’introduzione di tassi di cambio fissi fra gli Stati membri abbia senso – è il progetto di tutta la moneta unica -, occorre lavorare prima alla progressiva convergenza dei ritmi di crescita della produttività. Non è stato il caso dell’Europa. In queste condizioni, il dramma greco rappresenta il caso estremo di una situazione diffusa: la maggior parte degli Stati membri, comprese Francia e Italia, farà fatica a sopportare indefinitamente la parità esterna dell’euro e l’impossibilità di svalutare.

Di fronte alle differenze di produttività e competitività, soprattutto rispetto alla Germania, la necessità di trasferimenti interni alla zona euro appare con chiarezza. E ci rimanda alle idee sviluppate dall’economista britannico John Maynard Keynes alla conferenza di Bretton Woods, nel 1944.

La sua proposta, che potremmo adattare alla zona euro, era: esortare i paesi europei ad applicare il principio di una gestione cooperativa delle rispettive bilance dei pagamenti per mantenerle intorno all’equilibrio. Non con semplici trasferimenti finanziari o con aggiustamenti di cambio interni, ma con investimenti da parte dei paesi eccedentari verso i paesi deficitari, così da correggere gli squilibri.

Qual è il problema principale della Grecia? Per molti, è la sua incapacità di onorare i propri debiti. Secondo la commissione per la verità sul debito creata dal Parlamento ellenico, l’attuale stock di debiti deriva dal fortissimo aumento dei tassi d’interesse (fra il 1988 e il 2000), da massicce spese militari e poi, a partire dal 2000, dalla caduta delle entrate dello Stato provocata da evasione fiscale, amnistie fiscali e altri «regali» concessi ai più abbienti.

Quest’analisi individua certamente alcune delle cause dell’aumento del fardello del debito greco. Ma non tutte. Perché il debito non è la causa dei mali del paese; piuttosto, li aggrava. Il problema principale è il sottosviluppo delle attività produttive e il suo corollario: la grande dipendenza della Grecia dai finanziamenti esterni.

Attualmente, un’uscita della Grecia dalla zona euro seguita da una forte svalutazione della moneta nazionale colpirebbe molto negativamente la capacità dei greci di produrre i beni dei quali necessitano per vivere. Non solo il paese importa la quasi totalità dei beni di produzione e di consumo durevoli, ma la sua bilancia commerciale è in rosso anche nei campi dell’energia, dei farmaci, del tessile, degli elettrodomestici. È deficitario anche il settore agricolo.

Dopo l’adesione della Grecia alla Comunità europea, nel 1981, il consumo della popolazione si avvicina progressivamente a quello della media degli altri paesi europei sviluppati. Ma al tempo stesso, la produzione industriale crolla: la sua quota nel prodotto interno lordo passa dal 17% del 1980 al 10% circa nel 2009. Poi, dal 2009 al 2013, la produzione industriale è calata ulteriormente del 30%.

Questa situazione fa sì che il paese, per equilibrare la propria bilancia commerciale, dipenda in gran parte dal turismo e dai trasferimenti provenienti dall’estero. Storicamente, questi ultimi provenivano da persone che risiedevano e lavoravano in altre parti del mondo (anni 1960-1980); a partire dagli anni 1980-1990, sono stati sostituiti dai finanziamenti europei. Dagli anni 1980, la Grecia – le sue banche, le sue imprese e in ultima istanza lo Stato – si rivolgono ai mercati finanziari per finanziarsi. Una scelta che spiega l’esplosione del carico di interessi dovuti da Atene.

Da una parte un apparato produttivo carente, dall’altra la dipendenza dai finanziamenti esterni (perché l’economia non produce abbastanza per sostenere i redditi e il consumo, e per finanziare lo Stato e i servizi pubblici): il dramma greco si avviluppa su se stesso.

Di fronte al doppio deficit, negli scambi con l’estero e nei conti pubblici, i governi che si sono succeduti fra il 2008 e il 2015 – fino a quello di Antónis Samarás – hanno risposto comprimendo i consumi e la spesa pubblica. La prima misura doveva ridurre il deficit della bilancia commerciale; la seconda, quello nei conti dello Stato. Gli effetti di queste scelte funeste sono noti: una contrazione del Pil pari al 25%, un balzo della disoccupazione al 26% della popolazione attiva e… un’esplosione del debito.

Entrando in contraddizione, dopo aver riconosciuto in un rapporto del 2013 che le misure imposte alla Grecia erano state un errore, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha continuato a pretendere una riduzione delle pensioni e un aumento dell’imposta sul valore aggiunto. Ma queste ricette non consentono di immaginare una ripresa della crescita, unica prospettiva di rimborso dei debiti esistenti, che oggi superano il 175% del Pil.

Quale altra pista immaginare? L’opzione dell’annullamento parziale, decisa unilateralmente, acuirebbe le tensioni fra Atene e le istituzioni sulle quali il paese deve poter contare se desidera rimanere nella zona euro. La maggioranza dei creditori l’ha esclusa. Essa inoltre avrebbe un’efficacia solo temporanea, rimandando a domani la ricerca di una vera soluzione al problema greco.

Ma esiste un’altra via: usare il problema del debito come un’opportunità per industrializzare i paesi europei in difficoltà, fra i quali la Grecia. Un progetto la cui portata va oltre il caso specifico che oggi preoccupa mercati, media e dirigenti politici.

È pari ad almeno 50 miliardi di euro (in genere da rimborsare fra il 2016 e il 2024) l’ammontare dei debiti greci che tutti considerano persi. Si tratta del 15% circa del totale. Un progetto di uscita dalla crisi che si fondasse su un piano di industrializzazione del paese offrirebbe ai creditori una garanzia abbastanza seria di essere rimborsati.

E come? Il bilancio dello Stato greco ha un eccedente primario. Insomma, prima del servizio del debito, il governo spende meno del totale delle imposte che incassa. Ci sono due modi di analizzare questa situazione: o vedervi una capacità di rimborso, ed è questo che immancabilmente sottolineano i creditori; oppure una capacità di investimento, che un negoziato potrebbe promuovere.

La seconda pista implica una previa ristrutturazione del debito, senza un nuovo finanziamento da parte del Fmi o della zona euro. L’operazione avrebbe due obiettivi principali. Da una parte, far passare nelle mani di Stati europei i crediti attualmente detenuti dal Fmi e dalla Banca centrale europea (Bce) con scadenza 2016-2024, ovvero il 70% del totale. D’altra parte, rendere più flessibili le date di pagamento di alcune scadenze affinché l’ammontare totale dei rimborsi dovuti per un determinato periodo non sia superiore all’eccedente primario.

Gli Stati diventati detentori, al posto del Fmi e della Bce, del debito greco da pagare nel periodo 2016-2024 conferirebbero i loro crediti, di un ammontare pari a 50 miliardi di euro, a fondi di investimento pubblici bilaterali. Questi ultimi sarebbero detenuti in eguale misura da due istituzioni pubbliche. Nel caso della Francia potrebbe trattarsi della Banque publique d’investissement (Banca pubblica di investimento – Bpi); per la Germania, della Kreditanstalt für Wiederaufbau (Istituto di credito per la ricostruzione). Il fondo franco-greco deterrebbe il 20% dei crediti verso lo Stato greco; il suo omologo tedesco-greco, il 27%, ecc.

La Grecia continuerebbe a onorare il pagamento del debito ma – ed è il punto essenziale – il denaro andrebbe a fondi incaricati di investire nell’economia produttiva del paese. Detto in altri termini, invece di andare ad arricchire le tasche dei creditori, le somme sarebbero messe a profitto per sviluppare l’industria locale. Gli stati creditori-investitori sarebbero rimborsati una volta realizzati e venduti gli investimenti. Il diritto della concorrenza dell’Ue si è ben adattato finora ai fondi sovrani nazionali; non si vede perché dovrebbe disapprovare fondi bilaterali che perseguirebbero finalità del tutto simili.

Il coordinamento degli investimenti avverrebbe essenzialmente sotto l’egida della banca di sviluppo greca, partner di ciascuno dei fondi. Ma si avvarrebbe dell’esperienza dei fondi nazionali, che permetterebbe di evitare certi errori del passato, a cominciare dagli sprechi. Si può anche immaginare che la Banca europea degli investimenti (Bei), la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Berd) e/o la Banca mondiale mettano la loro esperienza e una parte della loro capacità di investimento al servizio dei progetti individuati.

Questa proposta richiede uno sforzo di immaginazione da parte dell’Europa, ma implica anche che la Grecia si impegni in una profonda riforma delle proprie istituzioni per uscire dal solco tradizionale: quello di un’economia di rendita (rendita turistica, rendita immobiliare, profitti legati al commercio di importazione) infettata dal clientelismo.

Occorrerebbe indubbiamente creare nuove istituzioni – come la banca di sviluppo greca in via di costituzione –, migliorare il regime fiscale degli investimenti esteri, realizzare un vero catasto per l’insieme del paese.

D’altra parte occorrerebbe sostenere la ricerca, incoraggiare il decentramento… Insomma, un cantiere istituzionale di ampia portata, corollario di un progetto di sviluppo senza il quale la Grecia non potrà uscire dalle difficoltà ereditate dal passato e che i piani di austerità hanno al tempo stesso evidenziato e aggravato.

Dunque lo sforzo sarebbe imponente, ma il gioco non vale forse la candela? I creditori diventati investitori contribuirebbero all’industrializzazione della Grecia, alla creazione di posti di lavoro nell’industria, alla riduzione della disoccupazione, alla crescita dei consumi, all’aumento delle entrate fiscali, al rimpatrio dei capitali grazie all’ancoraggio della Grecia nella zona euro, ecc. Si creerebbe un circolo virtuoso, proprio il contrario dell’attuale circolo vizioso tracciato dalle politiche di austerità. Senza contare che uno dei vantaggi di questo piano sarebbe individuare nuove occasioni di investimento per gli industriali del nord Europa. In altri termini, il rilancio dell’Europa indebitata servirebbe anche a quello dell’Unione nel suo insieme.

E andiamo oltre: perché non approfittare di questo progetto per approfondire le complementarietà industriali all’interno dell’Unione? Bruxelles sembra attualmente fomentare una concorrenza frontale fra gli apparati produttivi nazionali. Non si potrebbe invece far sì che gli investimenti da avviare in Grecia siano selezionati per rispondere ai bisogni della popolazione ma anche per inserirsi in un sistema produttivo davvero europeo?

Le eccellenze greche in certi campi, agroalimentare, cosmesi naturale, cantieristica e perfino alcune attività legate ai distretti aerospaziali potrebbero essere sviluppate e aiutare la base industriale dell’insieme della regione.

Un nuovo modello, suscettibile di essere riprodotto altrove in Europa, aprirebbe la strada a un vero rilancio europeo. Invece di una corsa al produttivismo, consentirebbe di avviare il continente sulla strada di uno sviluppo nuovo, ecologico, umano e solidale, sulla base di criteri elaborati in modo democratico.

Alla fine, la sfida, al di là del caso Grecia, è quella di far avanzare l’Europa verso un co-sviluppo inserito nel quadro della transizione energetica e dello sviluppo sostenibile. Il progetto europeo sarebbe rilanciato su basi nuove: cooperazione, ricerca dell’efficienza ambientale e sociale, la maggiore democratizzazione possibile delle scelte politiche, economiche e finanziarie.

Non resta che eliminare il condizionale….

* Gli autori sono rispettivamente: professore di economia all’università Toulouse-1 Capitole e ricercatore presso il Laboratoire d’étude et de recherche sur l’économie, les politiques et les systèmes sociaux (Lereps); avvocato del foro di Parigi e del foro di New York; direttore di ricerca emerito in economia al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs)

(Traduzione di Marinella Correggia)