La raccolta dei versi di Andrea Bajani, Dimora naturale (Einaudi, pp. 64, € 9,00) è una corona di ottave, di cinquanta ottave, che, rinunciando alla cantabilità della tradizione cavalleresca e al percussivo incantamento della rima, prendono nel loro ritmo, nella loro dizione, l’atonalità e la dissonanza della musica novecentesca. Sono musica di un pensiero che, trattenendosi sulla soglia dello stupore per le piccole apparizioni quotidiane – soprattutto animali –, vuole non disperdere l’emozione nel canto, ma trasformarla in una conoscenza, che è sottile percezione del proprio stare al mondo insieme con tante forme viventi e fruscianti e volanti: specie in mezzo ad altre specie, respiro tra respiri.

In queste ottave, misurate e pensose e funambolesche insieme, abitano molti uccelli, o per presenza visiva o per rinvio metaforico, e per questo il punto di osservazione dall’alto, dal volo, il sogno della leggerezza, lo sguardo sulla miserevole essenza umana segnata dalla «caduta», – che è caduta da un volo – sono le venature che traspaiono nel disporsi dei quadri quotidiani, osservati come da un balcone e su un balcone. E tutto questo nella discrezione di un meditare fatto di rapide incursioni immaginative, come è proprio nell’uso del verso. Con una sotterranea attitudine che riaffiora in improvvise belle figurazioni, e che consiste nel volere, per così dire, allucinare la soglia della differenza tra uomo e animale. E considerare quello che diciamo «umano» al di fuori dell’anamorfosi indotta dalla civiltà antropocentrica, vedere insomma nei soggetti umani «lo strazio vocale di ogni io».

Un decentramento dello sguardo, un fascino dell’elevazione e della levità, che fa venire in mente, certo, il leopardiano Elogio degli uccelli, e più in generale quell’avventura propria di una tradizione poetica che intende la lingua della poesia come resistenza alla fine dell’infanzia: una resistenza che cerca di accogliere, di quel perduto fiabesco mondo vivente, echi, sguardi, fantasmi. Senza rimpianto, ma trasformando il lontano incantamento in conoscenza fantastica.

Andrea Bajani, come nel racconto muove la prosa verso la poesia, cioè verso un domandare irrisolto e meravigliato – si pensi solo a uno degli ultimi libri, Un bene al mondo, storia di un bambino con il suo dolore, un dolore che è animato – così nei versi cerca di dare al poetico una forma piana, raccolta, essenziale e disadorna, aforismatica a volte, insomma un andamento discorsivo, che negli incipit di ogni ottava trova le sue conversevoli variazioni. Il suo dire accoglie apparizioni, con la scia grave o fantasiosa del loro mostrarsi, come alcune immagini suggeriscono: un grido di un bimbo scambiato per il grido di un gabbiano o per la voce di un gatto, l’ala del falco nella fusoliera di un aereo, il cielo nel cerchio di una pellicola d’acqua che è sul tavolo.

A proposito di questa immagine del cielo, l’azzurro nella superficie del quotidiano potrebbe essere la cifra della ricerca che trascorre in questi versi, come il gioco della lettera, il movimento fantastico dell’alfabeto, era la tensione propria della precedente raccolta, Promemoria. E c’è un filo che riaffiora talvolta e che è il dire della poesia stessa: parola che prende su di sé la coloritura e il movimento della cosa che rappresenta. Come vediamo nei versi: «Sono stormi, queste ottave di novembre, /si chiamano a raccolta come per istinto, / da settimane fanno disegni sopra i tetti». Così, tenere la penna tra le dita nel movimento dello scrivere è «come liberare/ una colomba per accorgersi del cielo».

E se è prevalente lungo il movimento musicale dei versi il registro atonale e ironico, l’ultima ottava raccoglie, dicendo proprio della poesia, quel cielo, dunque quell’alterità cosmica, prima nascosta nella superficie del visibile: «La poesia ha traiettorie solo a posteriori, /è un asteroide disperso, non monitorato. /Non esplode, non fa danni, lascia polvere /di versi sui balconi e torna nel buio siderale».