Dopo aver vinto l’Oscar nel 2008 per il docu Man on Wire, sulla camminata funabolesca di Philippe Petit tra i grattaceli del World Trade Centre nel 1974. Guadagnatosi il consenso della critica per un altro docu Project Nim del 2011, sul progetto scentifico controverso d’insegnare ad uno shimpanze la lingua dei ciechi. Il regista britannico James Marsh torna al film di finzione The Theory Of Everything. Progetto ambizioso che, tratto dal libro di memorie Travelling to Infinity: My Life with Stephen di Jane Hawking, segue la vita del legendario astrofisico Stephen Hawking.

Man on Wire e The Theory of Everything raccontano le imprese straordinarie di due gradndi uomini. Cosa hanno in comune? 

In Man on Wire è un uomo che cammina sulla fune sopra sopra i grattaceli. In The Theory of Everything c’è un uomo su una sedia a rotelle che è incatturato in un corpo che non funziona, per me riuscire a trascendere quest’aspetto ha creato la coonnesione tra i due uomini.

Poteva essere un Terrence Malick o un Mike Leighe, hai scelto invece, uno stile registico sobrio e contenuto.

L’idea era di raccontare la vicenda umana rimanendo lontano dalla spettacolizazione del personaggio. Sepur l’aspetto visivo era molto importante. Mi sono tenuto lontano anche da un realsimo puro, altrimenti avrei fatto un documentario. Ho cercato di realizzare un film ‘idealmente realsitico’.

 

Romantico ma mai sentimentale, racconta una malattia crudele ma non è mai cupo. Come hai lavorato per creare questo equilibrio?

La sceneggiatura è stata un’ossatura importante. Sono stato contento di aver avuto la fortuna di lavorare con Andrew McCarten, sceneggiatore che stimo, raccontare lo scenziato che studia l’universo e l’uomo colpito da una mallatia terribile. Nonostante la disibalità fisica Steve è capace di vivere una vita completa. L’aspetto emotivo, psicologico, del protagonista è stato un punto importante, che ho cercato di realizzare con il contributo di bravi attori.

L’interpretazione di ogni personaggio in un film ritengo sia cruciale per raccontare una storia sullo schermo, come delle pennelate, che cadono su punti precisi, a  completare un’immagine nitida.

Ho notato anche tanti scambi di sguardi silenziosi tra i personaggi, la loro relazione si sviluppa in questa direzione. 

I dialoghi silenziosi di sguardi, è su questo che ho costruito piuttosto che sulle parole. Ho usato tanti close up, piani stretti per Steve e la moglie. I loro sguardi esprimono quanto i due siano uniti, questo per me è stato il mezzo per far capire quanto le due vite fossero ravvicinate. Steve ha dei mezzi di comunicazione limitati, si esprime con piccoli gesti. Con il close-up ho lavorato a scrutare il volto degli attori. Il movimento di una sopracciglia era importante, la muscolatura del volto. Usare questa tecnica, è stato fondamnetale, grazie per averlo notato.

Con la sequenza delle immagini ho stabilito il ritmo interno del film, che doveva mantenere l’evoluzione emotiva e psicologica del personaggio.

Steve in particolare vive una battaglia interiore quotidana, per riuscire a contrastare la sua malattia e riesce ad andare oltre i limiti che gli impone. Era importante, per me, portare sulloschermo questa forza emotiva elibertà che Steve ha nell’ affrontare la sua vita afftettiva e intelletuale.

Non ho segreti, ma per me è fondamentale scegliere gli attori giusti e poi dargli fiducia totale e libertà d’interpretare.

E’ importante non solo scegliere quelli per i grandi ruoli ma anche per quelli minori, i protagonisti del film e chi li circonda.  Fare delle scelte corrette di cast mi aiuta a trasferire le storie sulllo schermo in modo autentico.

In questo caso ho scelto Eddy Redmayne.

 

Cosa comporta affrontare la biopic di una figura pubblica e straordinaria come Stephen Hawking?  

Una grande pressione e un forte senso di responsabilità! Mi è venuta immediatamnete quando ho letto la sceneggiature e ho saputo che si trattava della biopic di Steve.

C’è stato anche il passaggio da Man on Wire, un documetario a questo film di finzione, che ha comportato lavorare con tanti collaboratori, produttori, attori.

La collaborazione più importante è stata con gli attori.

Sapevo che Eddy poteva portare sullo schermo la sensibilità di Steve Hawking.

Il documentario e il film di finzione hanno anche dei punti in comune, in entrabi cerco di concentrarmi non su l’azione in sè, ma su ciò che l’ha prodotta. Cosa porta ad un uomo compiere quel gesto, per uno era camminare su una fune tra due grattaceli e per l’altro produrre uno delle scoperte scentificiche più importanti del nostro secolo, nonostante una disabilità fisica forte. In entrabe i casi mi sono creato il mio punto di vista, dal quale osservare la loro vita. Di Steve sapevo che ha avuto figli, un divorzio, che c’era una sorta di triangolo amoroso nella sua vita. Non avevo la pretesa di mettere una storia ‘vera’ sullo schermo.

Per Man on Wire mi sono attaccatto ai fatti, in questo film ho costruito una struttura drammatica che non conoscevo.

Come hai scelto gli attori?

Steve è un personaggio conosciuto, dovevo avvicinarmi anche alla sua immagine. Sono partito dalle fotografie di Steve da giovane e ho natato un’incredibile somiglianza con Eddy. Inoltre era fondamentale scegliere un attore con un esperienza più di palcoscenico che di cinema, un attore abituato a preparare il personaggio e capace di riprodurlo in modo fedele, di lavorare sulla sua psicologia. M’interessava il tempo interpretativo di una vita reale, che è molto vicino a quello che si crea sul palcoscenico. Per quattro mesi Eddy si è preparato, anche sull’aspetto fisico. Il corpo si doveva sorregggere su due bastoni. Riprodurre la vita emotiva di questo malessere fisico. Verso la fine è stato molto difficile per Eddy, poteva lavorare su poche cose. Steve ora si esprime con piccoli movimenti della sopracciglia o dei muscoli facciali. Eddy era spaventato e anch’io lo ero. Questo ci ha unito molto. Steve ha quel modo gentile che mai rivela quanto pietrificato sia dentro.

Eddy ha un attegiamnto critico e consapevole del suo lavoro. Da parte mia c’è stato un sostegno totale ma lui ha fatto un lavoro su se stesso durissimo.

 

Sono in uscita due film di cui si sta parlando molto che spiazzeranno molti blockbusters, uno è The Imitation Game e l’altro è il tuo entrambi britannici. Possiamo parlare di una rinascita del cinema made in UK?

Abbiamo una generazione di giovani attori bravi, sono speciali, fanno lavori interessanti, sia qui che in USA, e possiamo dire che la situazione produttiva si è mossa da uno stallo che aveva dieci anni fa. Abbiamo il B.F.I., la B.B.C., Working Titles, Chanel Four, tutti più presenti a sostenere il nostro cinema.

Diece anni fa abbiamo subito dei grossi tagli alla cultura, c’è stata una politica che ha dissanguato le nostre risorse, lasciando il cinema in fin di vita. Abbiamo subito dei tagli vandalici, dovuti a scelte politiche sbagliate.