Non passa giorno che le aziende tecnologiche non espandano il loro potere, e non c’è crisi che regga: la potenza della tecnologia è pronta a trovare soluzioni a ogni problema, e a vestirsi da salvatrice dell’umanità, per allargare la sua sfera di influenza. Ma ci sono poche ragioni per sentirsi sollevati. La rivoluzione tecnologica, che già nelle sue istanze originarie, sul piano del lavoro aveva promesso la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, non ha prodotto che miseria e sfruttamento, auto-sfruttamento e depressione.

Da quando poi l’industria del consumo ha incorporato l’estetica, si è avviato un processo di estetizzazione della vita politica, la stessa da cui Benjamin aveva messo in guardia i suoi lettori, auspicando invece la politicizzazione dell’arte. L’arte è stata quindi fagocitata dalle dinamiche del capitalismo, che hanno stravolto il lavoro di chi si se ne occupa, sprofondandolo in uno stato di ineludibile precarietà.

Ma se è vero che dove c’è il pericolo c’è la salvezza, viene da chiedersi che possibilità ci sono di costruire una posizione critica all’interno e attraverso l’arte.

UNA RISPOSTA POSSIBILE è contenuta nella pubblicazione di Vincenzo Estremo per Milieu Edizioni Teoria del lavoro reputazionale (pp. 174, euro 15), un saggio calato nell’osservazione dei meccanismi malati che hanno riconvertito il lavoro da professionale a «reputazionale».

Il termine attinge al lessico della finanza, dove viene solitamente riferito alla reputazione positiva di un’azienda, di un marchio, di un prodotto. Esteso all’ambito dell’arte contemporanea, inquadra il lavoro in un pensiero tecno-ottimista e tecno-determinista che scioglie i confini tra relazioni umane e produttive, casa e ufficio, lavoro e vita. Il risultato è un potere contrattuale fortemente indebolito e un’agenda politica, di necessità e desideri condivisi, assolutamente negata.

Nel testo il riferimento, frequente e puntuale, a produzioni di arte visiva riesce a cogliere tutta la mostruosità del capitalismo, in uno scenario in cui l’arte diventa una presenza assurda che, come gli occhi dei gatti, non fugge l’oscurità, e ne incarna la tragicità. Tre sono i binari lungo cui corre, e si sviluppa, l’argomentazione: il tempo, i media, l’immagine.

Il tempo è quello scandito dal lavoro massificato all’interno di quella che Adorno aveva chiamato industria culturale. Un tempo che, con il dislocamento, il regime di flessibilità e autogestione, e l’ossessione per la professionalizzazione, produce un grado massimo di sfruttamento e auto-sfruttamento.

I media, con la loro pervasività e iperattività, sono l’infrastruttura fenomenologica, che è in grado di produrre una sorveglianza tanto costante quanto impercettibile, in un’opacità travestita da trasparenza.

L’immagine è quella che, sciolta nel flusso delle informazioni, si dematerializza, diventa effimera, modifica e riorganizza la fase produttiva nel senso di una maggiore flessibilità e di una costante disponibilità alla produzione e una spontanea messa a lavoro del proprio tempo.

Nel libro emerge come la tecnologia abbia ricondotto le esistenze, con i loro bisogni e desideri, alle istanze del capitalismo, precludendo ogni tentativo di contrasto e di lotta: il capitalismo artistico ha reso i lavoratori dell’arte creature anfibie, che imparano a respirare nello stesso liquido che cerca di affogarli. Il There is No Alternative di Margareth Thatcher non è una risposta possibile, e bisogna convincersi che le alternative ci sono, ma implicano una riattivazione del conflitto e un ripensamento delle logiche dello scontro politico.

IL NIETZSCHE ormai maturo di Aurora scriveva: «Ridiamo di colui che nella lotta è gettato a terra e dice: “Io qui giaccio a terra, ma sono io che voglio questo!». E forse noi facciamo qualcosa di diverso quando usiamo la parola: «Io voglio»? Poche risate, c’è molto da fare.