La pandemia ha avuto almeno il merito di mettere in rilievo l’insostenibilità dell’attuale politica economica e sociale dei governi occidentali. Incidentalmente, nel 2020 è nato nel mondo un nuovo miliardario in dollari ogni 17 ore, una cosa mai vista. In particolare, la gestione fiscale è da lungo tempo una delle maggiori fonti di ingiustizia; Stiglitz ed altri hanno parlato a questo proposito di una sorta di “fondamentalismo” ideologico.

Ora emergono, sorprendentemente, dei segnali che fanno sperare in qualche miglioramento, reso peraltro ormai quasi obbligato dalle circostanze. Le strade di New York vedono in questi giorni dimostranti con grandi cartelli che dicono “tassiamo i ricchi”. Elenchiamo così molte dichiarazioni recenti sulla questione fiscale che mostrano tra l’altro, tra di loro, una rilevante coerenza. Naturalmente bisognerà poi vedere i fatti; come si sa, essi sono duri da cuocere.

Il piano Biden e l’Fmi. Come è noto, Biden sta portando avanti un piano di 2,3 trilioni di dollari per le infrastrutture, mentre prepara un progetto di più di 1 trilione di dollari per l’istruzione e la cura dell’infanzia. Il primo dovrebbe essere finanziato portando l’aliquota sui profitti d’impresa al 28%, dopo che Trump l’aveva abbassata dal 35 al 21%, nonché elevando anche quella sugli utili esteri; il secondo, aumentando le tasse dei privati con un reddito di più di 400 mila$ annui. Protestano le associazioni imprenditoriali, i repubblicani e anche qualche democratico; l’approvazione delle misure presenterà delle difficoltà.

Delle novità sembrano incredibilmente manifestarsi anche al Fondo Monetario. Un documento “ufficioso” del dicembre del 2020, le cui conclusioni sono state confermate ufficialmente ieri, sottolinea come la pandemia abbia mostrato le diseguaglianze del mondo. Esso invita così i governi a spostare maggiormente la tassazione dai lavoratori a medio e basso reddito ai ceti più abbienti. Si propone un’imposta sul reddito più progressiva, un maggior uso di carbon tax, tasse patrimoniali e così via, affiancandovi anche una parità di accesso ai servizi di base quali la sanità, l’istruzione, le infrastrutture digitali, le reti di sicurezza sociale.

Si comincia intanto a pensare a come far fronte ai debiti fatti dai governi nell’ultimo periodo. Si discute quindi anche di aumentare le tasse ai ricchi, che, tra l’altro, hanno avuto, come già accennato, un “buon” covid. Si parla di nuovo di patrimoniale, di tasse sui guadagni in conto capitale, sulle successioni, sul lusso. Naturalmente contro le tasse sui ricchi si levano da sempre voci interessate con argomenti speciosi.

Una recente ricerca della London School of Economics mostra come negli ultimi 50 anni, analizzando 18 paesi Ocse, i tagli fiscali effettuati a favore delle categorie più agiate non abbiano portato né ad un aumento della competitività né a quella del Pil. Così degli autorevoli esperti britannici propongono una patrimoniale una-tantum, con un’aliquota del 5% su ogni ricchezza che superi le 500.000 sterline. Sembra una buona base di discussione.

Cosa succederà in proposito nella nostra palude nazionale? Si può pensare all’Ocse, almeno per le questioni fiscali, come ad un porto delle nebbie, con mandanti del gioco i paesi che ne fanno parte. Da molti anni vi si discute di tassazione di multinazionali, di carbon tax e di web tax e non si arriva a concludere mai nulla.

È almeno dal 2013 che la Francia, la Germania e la GB, preoccupate per le poche imposte pagate dalle multinazionali, chiedono all’Ocse di indagare sulla questione e di fornire delle soluzioni; ma siamo arrivati sino ad oggi senza alcun risultato, soprattutto per l’opposizione Usa.

La novità è ora costituita dal fatto che Janet Yellen, nell’ambito di un nuovo più generale attivismo Usa volto a riconquistare la leadership mondiale (?), si è finalmente dichiarata a favore di una tassa minima globale sui profitti delle multinazionali, da collocare al 21%, evitando così quella corsa alla riduzione delle aliquote nei vari paesi che è andata avanti per tanto tempo. E Francia e Germania sarebbero d’accordo con la Yellen, purché si desse il via anche ad altre questioni in sospeso.

È da tempo infatti che la Ue cerca di introdurre, sempre frenata dagli Usa, una tassa specifica sui guadagni delle imprese digitali (web tax), sostanzialmente americane, guadagni occultati nei paradisi fiscali. Diversi paesi avevano varato delle norme in proposito, ora sospese con l’obiettivo di trovare un accordo al vertice di Venezia di luglio. Ma gli Usa approveranno mai una cosa del genere? C’è da dubitarne. La Ue vuole mettere in campo anche una carbon border tax, ma di nuovo l’inviato Usa per il clima vuole discuterne alla conferenza Onu di fine anno. Si vedrà. Ma intanto qualcuno ha pensato a consultare i paesi emergenti?