Da ieri in India l’omosessualità è tornata ad essere un reato punibile con pene fino a 10 anni di reclusione. Frutto di una sentenza inaspettata della Corte suprema che, accogliendo il ricorso di vari gruppi e associazioni di stampo religioso, ha rovesciato il giudizio “storico” formulato nel 2009 dall’Alta Corte di Delhi.

L’oggetto del dibattere è la legge 377 del codice di procedura penale indiano, secondo la quale le attività sessuali «contro l’ordine naturale che coinvolgano uomini, donne o animali» sono da ritenersi illegali. La legge, ereditata dall’epoca coloniale britannica, grazie alla campagna promossa dai gruppi Lgbt indiani, venne abrogata dall’Alta Corte di Delhi nel luglio del 2009, ritenendola lesiva dei diritti fondamentali di uguaglianza, libertà d’espressione e pari dignità garantiti dalla Costituzione.

Dal 2009, in India, l’omosessualità non era più perseguibile per legge, condizione che ha permesso la normalizzazione dello status sociale della comunità gay almeno nelle realtà urbane: uscire dall’incognito e vedersi garantiti davanti alla legge il diritto ad essere come gli altri.

Adele Tulli, documentarista ed esperta di movimenti Lgbt in India, col suo documentario 365 without 377 uscito nel 2011 aveva raccontato il primo anno del subcontinente senza legge anti-gay, l’inizio di un cammino verso la riappropriazione di diritti naturali negati per quasi 150 anni da una norma vittoriana di stampo giudaico-cristiano. Raggiunta telefonicamente dal manifesto, Tulli ha spiegato che i movimenti Lgbt si sono trovati di fronte a una sentenza inaspettata: «Dopo anni di attesa, martedì la Corte suprema aveva annunciato che il giorno seguente si sarebbe pronunciata sull’abrogazione: a Delhi, Mumbai e Bangalore i gruppi locali avevano organizzato maxi-schermi in piazza, erano tutti pronti per festeggiare o protestare. Nessuno si aspettava che i diritti potessero essere prima riconosciuti e poi tolti di nuovo».

Dopo la sentenza del 2009 diversi gruppi conservatori e di stampo religioso – hindu, musulmani cristiani, tutti uniti per l’occasione – avevano fatto ricorso alla Corte suprema contestando l’abrogazione della legge 377: a seconda dei casi, l’omosessualità veniva bollata come una «malattia mentale» curabile, per il santone hindu Baba Ramdev, con specifici esercizi yoga; o, per cristiani e musulmani, come una minaccia agli interessi religiosi.

I conservatori hindu denunciavano la legalizzazione dell’amore omosessuale come contrario alla «tradizione hindu», condizione che avrebbe incentivato la diffusione dell’Aids nel paese, indebolito l’esercito e aumentato la prostituzione maschile in India.

«I primi dubbi sono iniziati a sorgere l’anno scorso, quando i giudici hanno iniziato ad ascoltare le petizioni dei conservatori per ribaltare l’abrogazione» ha continuato Tulli, chiarendo che il tema dei diritti gay, anche in India, non è particolarmente appetibile a livello politico: «Mai nessun partito ha preso una posizione netta sull’argomento, la politica si è disinteressata e solo una parte di opinione pubblica ha portato avanti la lotta per i diritti Lgbt».

La sentenza di ieri, pronunciata dal celebre giudice Singhvi proprio il giorno prima del pensionamento, dice che la legge 377 non è incostituzionale e quindi non può essere abrogata per via giuridica; ogni eventuale cambiamento dovrà passare al vaglio del potere legislativo, del parlamento. A pochi mesi dalle elezioni generali, l’ipotetico iter parlamentare, secondo Tulli, sarà rimandato «almeno per un altro anno». Fino a quel momento, le migliaia di indiani che in questi anni hanno fatto coming out torneranno ad essere potenzialmente perseguibili per legge.

Le organizzazioni Lgbt indiane hanno già ricominciato la lotta, organizzando nella giornata di ieri proteste lampo a New Delhi e Mumbai, mentre gli indiani della diaspora si sono ritrovati in manifestazione a Trafalgar Square, Londra.

«Alla fine del documentario – ha ricordato Tulli – appare un cartello in cui avverto che, alla chiusura delle riprese, la Corte suprema non si era ancora pronunciata. Mai avrei pensato al senso amaramente profetico di quella frase. Ma la lotta continua».