Mercoledì i democratici ruggivano, o almeno ci provavano. Una dichiarazione via l’altra, una più dura dell’altra contro il ministro Alfano e la sua irrealistica verità sul caso Shalabayeva. Un sussulto di dignità. Ma anche una mano di poker giocata sul rilancio continuo, con l’obiettivo di costringere l’avversario a lasciare il ministero. La vittoria non era certa, la sconfitta nemmeno. Berlusconi teme la crisi quanto il Pd e forse di più. Due giorni fa la tentazione di evitare rischi ordinando ad Angelino il doloroso passo indietro, ai piani alti del Pdl, era ancora fortissima.
Poi è arrivata l’intemerata di Letta, con la decisione di mettere tutto il suo peso sul piatto della bilancia per farla pendere a favore di Alfano. Chi tocca lui tocca anche me, e vediamo un po’ chi tra i democratici ha il coraggio di cacciare a pedate non Alfano Angelino ma Letta Enrico. I ruggiti si sono trasformati in sussurri. Conati di resistenza ai quali i primi a non credere erano proprio gli ex leoncini.
Infine è arrivato il colpo da ko, il diktat di Napolitano. Si sapeva che il presidentissimo si sarebbe schierato senza mezzi termini a favore della stabilità. Non si prevedeva però che lo avrebbe fatto in forma tanto esplicita. Senza consigliare. Senza persuadere moralmente. Distribuendo ordini, e di quelli tassativi. Con ancora nelle orecchie le ferrigne parole del capo dello Stato, gli ex ruggenti sono entrati nell’assemblea del gruppo al senato, il momento della verità, squittendo. Non hanno più smesso.
I voti parlano da soli. La proposta del reggente Epifani e del capo dei senatori Zanda, per farla breve una resa incondizionata, il no tondo alla sfiducia, è stata approvata senza nemmeno un voto contrario: 80 sì, 7 astensioni. Tre renziani (Andrea Marcucci, Isabella De Monte e Vincenzo Cuomo), dei 13 sedicenti guerrieri che 24 ore prima esigevano la cacciata di don Angelino. E poi i dissidenti fissi: Laura Puppato, Felice Casson, Walter Tocci più Lorenza Ricchiuti.
I renziani in apertura provano a tenere duro, ma lo fanno più per sceneggiata che per altro: certo, non ci si può accodare a una mozione di sfiducia delle opposizioni, ma cosa vieta di presentarne una nostra? Segue massacro in piena regola. I «fighetti», come graziosamente ribattezzati i renziani stessi, sono il nemico da battere. Franceschini li mette all’angolo: basta con chi ci mette la faccia e chi lascia che a sporcarsi le mani siano gli altri. E sia chiaro: il voto è politico, appelli alla coscienza non saranno ammessi. L’intervento risolutivo è quello di Stefano Esposito, un duro: «Io voto alla seconda chiama e se qualcuno dei fighetti è assente o non vota come si deve non voto nemmeno io, poi mi autosospendo dal gruppo e dal partito e invoco il chiarimento generale». I tempi cambiano, anche le notti dei lunghi coltelli mutano di nome.
La requisitoria di Esposito dà la stura al livore sin qui ancora represso nei confronti dei «fighetti». Non resta che andare di corsa al voto per dargli il colpo di grazia. Risultati non bulgari: peggio. Epifani gongola: «Domani voteremo no alla richiesta di fiducia», annuncia giubilante. «Nel gruppo del Pd c’è stata una discussione molto seria. Sono molto soddisfatto», aggiunge. Si vede che il senso del ridicolo al nazareno nemmeno ricordano più che esista. Ma scusi, reggente, non aveva detto che se Alfano sapeva doveva andarsene? Quanta ingenuità!! «Bisogna vedere cosa sapeva», replica enigmatico Guglielmo.
I vinti lasciano il campo della disfatta riconsolandosi come possono. Cioè con le illusioni. «Non finisce qui, comunque il ministro dovrà chiarire e spiegare», ohibò se dovrà farlo. Chiacchiere. La partita è chiusa. L’ha chiusa Napolitano, per interposto Letta e poi in prima persona. Converrebbe ammetterlo. E’ la Beresina.
La faccenda ha un primo e pesante strascico subito, con Civati che accusa Franceschini di aver minacciato l’espulsione dei dissidenti, Franceschini che s’indigna e reclama le scuse, Civati che dichiara chiuso l’incidente ma aggiunge che lui all’assemblea serale dei deputati non ci sarà.
Come spiega un senatore, la minaccia esplicita non c’è stata, un’allusione sì. E il dubbio che sia stata chiara inevitabilmente sorge quando in serata due dei tre renziani ancora non allineati firmano un documento sulla «schiena dritta» del Pd che fa subodorare un ritorno all’ovile. E poi non rimase nessuno….