Il presidente Obama ha deciso di prolungare la presenza delle truppe Usa in Afghanistan. L’annuncio ufficiale è arrivato ieri, in una conferenza stampa alla Casa Bianca, i cui contenuti erano stati anticipati alla stampa.

Attualmente nel paese centro-asiatico operano circa 9.800 soldati statunitensi. Obama aveva promesso di ritirarli entro il 2016, ma ha cambiato idea: resteranno per tutto il 2016, e scenderanno a 5.500 soltanto a partire dal 2017. Rimarranno operative anche alcune basi militari, tra cui quelle di Bagram, 40 km a nord di Kabul, di Jalalabad, verso il confine orientale con il Pakistan, e di Kandahar, nel sud del Paese.

Il tono è solenne

«La nostra missione di combattimento è finita, ma il nostro impegno per gli afghani e l’Afghanistan continua», ha dichiarato Obama in tono solenne. «Come comandante in capo delle forze Usa non posso permettere che l’Afghanistan diventi di nuovo un rifugio per i terroristi che intendono attaccare la nostra nazione», ha aggiunto, per poi specificare i punti della sua nuova politica: 9.800 uomini per gran parte del 2016, che verranno ridotti a 5.500 a partire dal 2017.

Una doppia parabola, quella di Obama: il 27 maggio 2014 aveva annunciato che già alla fine del 2015 i soldati a stelle e strisce sarebbero stati 5.000, per arrivare a una presenza minima (qualche centinaio), per tutelare la sola ambasciata americana, alla fine del 2016. Un anno dopo, il 24 marzo 2015, in una conferenza stampa alla Casa Bianca con l’omologo afghano Ashraf Ghani, il primo ripensamento: «Circa diecimila soldati americani rimarranno in Afghanistan per tutto il 2015». Ieri, la seconda piroetta, con cui Obama – che nel gennaio 2017 lascerà la Casa Bianca – consegna nelle mani del suo successore le sorti della guerra afghana, nonostante in campagna elettorale avesse promesso di volerla concludere prima della fine del mandato.

Nel discorso tenuto ieri alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti ha enfatizzato un punto: cambiano i numeri e i tempi del ritiro americano, non la missione e i suoi obiettivi, che rimangono «limitati»: fornire addestramento alle forze di sicurezza afghane e sostenere le operazioni di contro-terrorismo «contro ciò che rimane di al Qaeda».

Arrivano dal Pakistan

Secondo Obama, la pressione militare sui militanti islamisti in Pakistan avrebbe infatti provocato un trasferimento di jihadisti in Afghanistan, rendendo più rilevante la minaccia di al-Qaeda e dello stesso Stato islamico. Alcune zone del paese – ha ammesso – restano molto vulnerabili, e la situazione rischia di peggiorare, senza gli americani. Anche perché le forze di sicurezza afghane – encomiate per gli sforzi, il coraggio, i miglioramenti – «non sono solide quanto dovrebbero».
Per questo, ha detto Obama, «lavoreremo con i nostri partner della coalizione affinché si allineino» anche dopo il 2016 alle decisioni degli Stati Uniti. Facile immaginare che gli alleati – Italia inclusa – si allineino in fretta, come già fatto in passato. Intanto il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, si è affrettato a congratularsi con Obama: «Questa importante decisione getta le basi per una sostanziale presenza degli alleati e dei partner della Nato in Afghanistan», ha sostenuto Stoltenberg.

Il segretario dell’Alleanza atlantica ha voluto quindi sottolineare come «il contributo americano» costituisca un fattore cruciale nella decisione che la Nato assumerà nelle prossime settimane sul futuro di Resolute Support, la missione militare che sostituisce, dall’inizio del 2015, la missione denominata Isaf.

Generali in parte accontentati

La decisione di Obama, accolta con entusiasmo al quartiere generale della Nato, accontenta in parte anche i generali statunitensi: martedì 6 ottobre, in un’audizione al Senato americano, era stato lo stesso generale Campbell, a capo delle forze Usa e Nato in Afghanistan, a chiedere un ripensamento dei piani del ritiro: «Dovremmo garantire alla nostra leadership opzioni diverse rispetto al piano che stiamo attualmente seguendo».

Così aveva detto Campbell nel giorno in cui aveva dovuto spiegare alla Commissione Affari militari il bombardamento americano del 3 ottobre sul centro traumatologico di Medici senza frontiere di Kunduz che ha provocato 22 morti (12 tra medici e operatori di Msf e 10 pazienti, tra cui tre bambini).

Campbell quel giorno è stato piuttosto evasivo sulle responsabilità americane della strage di civili, ma molto chiaro sulla necessità di prolungare la presenza militare sul campo. Per lui e per gli altri generali americani, la guerra in Afghanistan non si può vincere, se non con i mezzi militari.

Obama li ha accontentati, almeno in parte (avrebbero voluto in realtà un numero maggiore di soldati), ma ha ricordato a loro e ai Talebani che l’unica chiave «è una soluzione politica duratura». Quando si dice la coerenza tra mezzi e fini.