L’uccisione di Qassem Soleimani a Baghdad non ha lasciato senza parole lo sport americano, che negli anni si è spesso schierato contro Donald Trump.
Intanto, per motivi di sicurezza, 24 ore dopo l’operazione Soleimani, la nazionale statunitense di calcio, su decisione della federazione, è stata costretta ad annullare il ritiro in Qatar, a Doha, dal 5 al 25 gennaio, in vista di una partita contro il Costa Rica in California agli inizi di febbraio «a causa della situazione in via di sviluppo nella regione», ha spiegato in una nota la federazione a stelle e strisce.

E se sono iniziati i lavori per accordi alternativi con la Qatar Football Association (tra due anni il paese arabo ospiterà i Mondiali), tra l’altro parecchio criticati negli Stati Uniti per la continua violazione dei diritti umani in Qatar, la strategia della tensione di Trump e l’intervento militare per scongiurare un attentato di Soleimani ai diplomatici americani, non vede d’accordo alcuni tra i principali protagonisti nazionali di tennis e basket.

Per ora ancora pochi post, tweet o interviste di critica aperta alla scelta di Trump, come avvenuto più volte durante la sua amministrazione. Ma il dissenso cresce, partendo da Martina Navratilova, ex leggenda del tennis femminile (59 titoli del Grand Slam tra singolare, doppio e doppio misto), voce ascoltata nella dialettica aspra con Trump sulla tutela dei diritti lgbt e che si è presentata all’ultima edizione di Wimbledon con un cappellino bianco e la scritta in rosso Impeach (incriminatelo).

Secondo l’ex ceca, naturalizzata americana, la sentenza di morte per Soleimani è stata un’arma di distrazione di massa usata da Trump per allentare l’interesse dei media e degli americani dall’impeachment.

E quindi, sul profilo Twitter della 62enne ex tennista, sono ospitati articoli, come quello del quotidiano britannico Daily Telegraph, sul corteo funebre a Baghdad con cori intonati sull’America «Grande Satana» e opinioni di americani che spiegano di provare vergogna a vivere all’estero in questo momento.

E un altro campione dello sport estremamente contrario a Donald Trump, Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors, la squadra che ha dominato gli ultimi anni nella Nba, il campionato di basket americano, si è subito schierato contro la decisione del presidente degli Stati Uniti di eliminare il generale iraniano a Baghdad.

Kerr con un tweet ha ricordato di aver imparato nella sua vita a non credere alle giustificazioni governative sulle guerre, da Johnson e Nixon che mentirono sul Vietnam a George Bush senior e Dick Cheney che fecero lo stesso sulle presunte armi di distruzione di massa a disposizione di Saddam Hussein che portarono all’invasione dell’Iraq nei primi anni Novanta, sino a Mike Pence e il presunto coinvolgimento di Soleimani negli attentati dell’11 settembre 2001.

Le storie tra Kerr (il padre Malcom fu ucciso negli anni Ottanta a Beirut, dove era presidente dell’American University) e Trump sono piuttosto tese dall’inizio del mandato presidenziale del tycoon. Kerr, dopo i vari titoli Nba vinti con Golden State, ha deciso assieme ai giocatori di non sfilare alla Casa Bianca – una liturgia osservata dalle squadre che vincono i campionati nazionali – per le politiche intolleranti attuate da Trump contro le minoranze.

Il numero uno della White House, a proposito delle tensioni tra Nba e Cina dello scorso ottobre dopo un tweet di un dirigente della lega a favore delle richieste di indipendenza di Hong Kong, aveva definito lo stesso Kerr e Gregg Popovich – guru tra gli allenatori Nba e duro oppositore di Trump – «bambini che hanno paura della Cina».