In un mese, dal 6 febbraio al 5 marzo, il mondo della moda avrà visto migliaia e migliaia di vestiti. New York, Londra, Milano e infine Parigi hanno allineato un centinaio di sfilate a testa nell’intento di mostrare le proposte della moda per l’autunno/inverno 2014-15. Proposte e non tendenze, come si diceva una volta, perché oggi tutti tendono perlopiù a vendere molti abiti e non certo a immaginare una moda che, ponendo dei riferimenti estetici precisi, possa convincere la clientela a comprare. Un processo che appare per lo più fuori moda perché gli abiti oggi altro non sono se non un pretesto per i fatturati globali dei grandi gruppi che concentrano molti marchi (Lvmh e Kering, i due colossi francesi, ne incamerano oltre dieci a testa). E non solo i gruppi, perché anche i marchi indipendenti fatturano miliardi di euro e va detto che, secondo un’inchiesta del Financial Times la redditività del fast fashion (Zara e H&M per tutti) è più alta: per esempio, il signor Amancio Ortega, proprietario della spagnola Zara che non spende un euro nella ricerca stilistica, ha una ricchezza più grande del signor Giorgio Armani.

Che cosa, quindi, hanno immaginato per il prossimo inverno questi marchi di cui buona parte hanno dei fatturati con cifre più alte di una legge finanziaria? Ebbene, chi più chi meno, ma tutti hanno proposto un ritorno agli Anni 60, perché nel mondo della moda appare urgente una volontà di riscatto dall’appiattimento di questi ultimi anni. È come se la grande omologazione prodotta proprio dalla corsa forsennata all’ingigantimento dei mercati e dei fatturati oggi stia mostrando tutti i suoi limiti. Stili non riconoscibili e non distinguibili uno dall’altro, infatti, stanno producendo una perdita di riferimenti nei consumatori che anche nei mercati ricchi sono alla ricerca di una moda più distinguibile e meno omologata. Come questo problema possa essere risolto da una nuova declinazione degli Anni 60 non è chiaro. Certo, c’è chi ha preso a modello i Sessanta piccolo borghesi, chi di quel decennio ha declinato i movimenti che hanno preparato il cambiamento successivo, ma in realtà pochi hanno colto quello che veramente di rivoluzionario ha espresso quel decennio, è cioè l’apertura mentale sul mondo delle possibilità. In quegli anni il mondo produceva movimenti che poi si riflettevano nel cinema, la musica (Beatles e Rolling Stones), la politica (J. F. Kennedy e Mao Zedong), i voli spaziali (Gagarin nel 1961 e allunaggio nel 1969). E la moda rifletteva tutto questo con lo Space Age di Courrèges, Paco Rabanne, Cardin e le rivoluzioni urbane di Saint Laurent e Mary Quant. Oggi, come fa la moda a riflettere la bassa qualità dei contenuti delle foto postate su Instagram? Si rifiuta, ma non ha molto altro da guardare. E cita i Sessanta nella speranza che si apra qualche spiraglio sulle possibilità.

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