A due anni, 9 mesi, una settimana e 4 giorni dalla prima bomba saudita sganciata sullo Yemen, è tempo di smetterla di chiamarla guerra. Quella in corso nel paese più povero del Golfo è un’aggressione contro una popolazione civile a cui prende parte mezzo mondo. Di stivali sul terreno non ce ne sono, se non quelli delle forze governative del presidente Hadi, alleato dei Saud. Ci sono invece raid aerei ed embargo.

Se di guerra si vuol parlare, ci si dovrebbe riferire a quella civile in corso tra la minoranza Houthi, rappresentata politicamente dal movimento Ansar Allah, e il governo centrale, poi allargata ad attori solo a parole minori, quali i secessionisti del sud e al Qaeda.

Ma è una parte «minima»: la maggior parte dei morti (13.600 secondoi dati più recenti, di cui 5mila bambini), dei tre milioni di sfollati, dei 40mila feriti e della devastazione di infrastrutture vitali va imputata alla coalizione sunnita a guida saudita che – appelli umanitari a parte – è sostenuta militarmente e politicamente sia dal resto del Golfo che dall’Occidente.

Militarmente, lo dicono i dati di vendita di armi pubblicati in queste pagine. Politicamente perché l’endorsement a quella che è negli effetti una guerra per procura all’Iran è giunto sia dagli Stati uniti di Obama prima e poi di Trump (che lavora alacremente alla nascita di una sorta di Nato sunnita, in cui infilare anche Israele) che dall’Unione Europea, seppur in modo indiretto e vacuo come è la politica estera Ue.

Un endorsement figlio di interessi vari: di business militare, di destabilizzazione continua e strutturale del Medio Oriente, di «vendetta» per le vittorie belliche e diplomatiche di Teheran in Siria.

A pagare il prezzo sono solo i civili yemeniti, vittime sacrificali della guerra permanente. Si potrebbero elencare le ultime stragi, un bollettino che va quotidianamente aggiornato e che non trova l’interesse della stampa, dei governi e di buona parte delle opinioni pubbliche internazionali: ieri 20 persone sono state uccise in un raid aereo Usa, diretto contro al Qaeda, che ha colpito però un ristorante nel distretto di al-Jarrahi, a Hodeidah; dieci donne sono morte nel bombardamento di una fattoria a Khokhak, di nuovo Hodeidah; venerdì quattro civili (di cui un bambino) sono stati uccisi a Saada.

Gli Houthi rispondono, mostrando una capacità militare significativa, per alcuni imputabile al supporto iraniano, per altri alla conoscenza del montagnoso e difficile territorio yemenita e al sostegno popolare: ieri i ribelli hanno abbattuto un drone saudita nella provincia nord di Hajjah. Era già successo a ottobre e a giugno, con l’abbattimento di due jet dell’aviazione saudita.

Ma è sul terreno che Ansar Allah resiste meglio, facendo dello Yemen – nell’immaginario occidentale – il «Vietnam saudita»: dopo l’esecuzione dell’ex dittatore (ed ex alleato) Saleh, il 4 dicembre, gli scontri si sono intensificati con la controffensiva lanciata dal governo ufficiale da sud verso nord, vera roccaforte Houthi.

Venerdì il capo di Stato maggiore dell’esercito governativo ha annunciato il desiderio di alcuni «paesi della Ue, dell’Europa orientale e del sud-est asiatico», non meglio identificati, di «fornire supporto logistico» alle truppe. Ma le parole che nella macelleria yemenita colpiscono di più sono quelle pronunciate ieri dal segretario alla Difesa Usa, ’Cane pazzo’ Mattis: Washington – ha detto – fa «tutto quello che può» per evitare vittime civili.

Una reazione alla denuncia del giorno prima delle Nazioni Unite che, per bocca del responsabile delle operazioni umanitarie McGoldrick, hanno parlato di «guerra assurda e futile», dopo l’uccisione di quasi 70 civili in un solo giorno di bombardamenti aerei.

In tale situazione gli Stati uniti non possono in alcun modo presentarsi, come fanno, nelle vesti di possibili mediatori della pace. La sola via d’uscita è la fine dell’aggressione militare e l’apertura di un vero tavolo del dialogo che garantisca agli Houthi la partecipazione alla vita politica. Un tavolo privo dell’aggressore, che si tratti di Washington o di Riyadh.