Ieri la coalizione si è incontrata a Washington per discutere della strategia anti-Isis che sul terreno prosegue nella sua avanzata, quasi indisturbato, mentre le divisioni settarie irachene impediscono un fronte unito contro la minaccia islamista. Ne abbiamo parlato con Harith Hasan al Qarawee, analista iracheno per Al Monitor e Jadaliyya.

Come valuta l’operazione portata avanti dalla coalizione? Il fronte anti-Isis pare frammentato.
Sembra impossibile sconfiggere l’Isis solo con i raid. Lo Stato Islamico tenta di controllare un numero sempre maggiore di città convinto che così i miliziani siano più protetti: la coalizione tende a non bombardare le aree densamente popolate da civili. Gli islamisti hanno adattato le loro operazioni alla situazione, riescono a muoversi facilmente da una città all’altra e anche ad attraversare il confine senza essere attaccati. Dall’altra parte abbiamo una strategia militare, quella messa in piedi della coalizione, che non funziona. Per due ragioni.

Prima di tutto, la differenza di obiettivi del fronte anti-Isis: i suoi membri non concordano su quali siano le prospettive future e le priorità politiche. Ognuno vuole un impegno diverso dagli Usa: la Turchia pretende la caduta del regime di Assad, i sauditi vogliono escludere l’Iran, Teheran – membro ufficioso della coalizione – ritiene che tale operazione sia volta a modificare la geopolitica di Iraq e Siria.

L’altra ragione è l’assenza di truppe di terra, le uniche che potrebbero scovare i miliziani. In Iraq ad agire sono l’esercito, i peshmerga curdi e alcune milizie sunnite che il governo tenta di portare sotto la sua ala. Ma non basta: l’esercito iracheno non è una forza credibile, soprattutto nelle aree sunnite: la maggior parte dei soldati sono sciiti, considerati inaffidabili dalla popolazione locale e questo gli impedisce di creare una rete di intelligence. In Siria, invece, si fa affidamento sulle opposizioni, ma è un’idea ridicola: gran parte del denaro e delle armi che l’Isis ha raccolto in questi mesi arrivano proprio da loro.

Se l’Isis assumesse il controllo totale del territorio da Aleppo all’Iraq, quali sarebbero le conseguenze?
Più tempo gli islamisti trascorrono in questi territori e più diventano potenti: incrementano le loro risorse e il numero di volontari tra le loro file. Fanno propaganda tra i civili e non sfidano i poteri tribali. Combattono solo quelli che li combattono. Ovviamente, la questione della governabilità è una grande sfida: possono essere efficaci dal punto di vista militare, ma non amministrativo. I requisiti di governabilità (gestire le comunità occupate, fornire loro servizi, pagare gli stipendi) sono alti. Si sta generando il caos, una sorta di non-Stato all’interno dello Stato-nazione.

La Turchia ha un obiettivo chiaro: non l’Isis, ma Assad.
L’attitudine del governo turco è molto sospetta. L’Isis fa pressione sui curdi in Siria e sul Pkk e in qualche modo fa un favore ad Ankara. E per intervenire la Turchia vuole rassicurazioni dalla coalizione sulla caduta di Assad. O almeno, chiede di rendere sicuri i territori al confine, aree protette che gli permetterebbero di incrementare la propria influenza nella regione. È noto il passaggio via Turchia di miliziani islamisti verso la Siria: Ankara non fa nulla per indebolire l’Isis ed è considerabile complice della crescita dello Stato Islamico.

Ma gli Usa non sono pronti a dare ai turchi quello che chiedono perché le richieste di ogni partner sono diverse e apparentemente inconciliabili. La stessa Arabia Saudita è entrata in competizione con i curdi su chi ha maggiore controllo delle aree sunnite. E poi c’è l’Iran che, seppure non sia parte della coalizione, ha un’influenza consistente sul fronte anti-Isis. Le diverse agende politiche rendono impossibile una strategia comune.

Il ruolo giocato dai miliziani curdi provocherà ulteriori spaccature dell’Iraq?
Sembra impossibile il ritorno alla mappa post-coloniale, ai precedenti confini nazionali in Iraq e Siria. Le forze di frammentazione si rafforzano e Baghdad e Damasco sono troppo deboli. Anche le stesse popolazioni non si sentono particolarmente attaccate al sentimento nazionale. C’è bisogno di rivedere i rapporti interni, in particolare tra governi centrali e minoranze che permetta a questi paesi di sopravvivere seppure in un modo diverso dal passato. Con la nomina del nuovo premier iracheno, al-Abadi, è sorta la speranza di un governo con un’idea chiara del futuro, delle relazioni tra Kurdistan e Baghdad e della soluzione al problema sunnita. Ma questo esecutivo è troppo debole, lento e inefficace.

Allo stesso tempo, i curdi hanno capito che ottenere l’autonomia porterebbe complicazioni: senza una coalizione globale, non sarebbero in grado di combattere poteri disfunzionali come l’Isis.