L’Italia è in declino da più di 25 anni. La costante riduzione della differenza tra la crescita del nostro Pil e degli altri paesi europei, il tasso di disoccupazione attorno al 30% (se si considerano scoraggiati e part-time involontari), l’aumento della povertà e del fenomeno dei poveri occupati, deriva dalla riduzione della domanda interna, in particolare della spesa pubblica, e da aumenti della pressione fiscale.

Da noi la distanza tra pressione fiscale teorica – quello che dovremmo pagare secondo la legge – e quella reale – ciò che decidiamo di versare al fisco – è molto alta a causa dell’evasione fiscale. Che implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di solito, si tratta di redditi tassati “alla fonte” e che chi evade ha l’ulteriore “guadagno” derivante dagli oneri finanziari sul debito pubblico che, anche per l’evasione, continua ad aumentare.

Più alto è il tasso di interesse più svalutiamo il futuro, ossia meno ci curiamo delle generazioni che verranno, e maggiore è la redistribuzione del reddito dai poveri ai ricchi. Far crescere il debito con spese improduttive provoca dunque un trasferimento inter-generazionale a scapito dei giovani e di reddito a favore di chi è già ricco . L’Italia ha pagato agli investitori tra il 1980 ed il 2014, interessi pari a circa due anni di Pil.

Dobbiamo quindi uscire da questa spirale perversa perché attuare politiche economiche restrittive in un’economia in cui quasi un quarto dei redditi totale sfugge alla legalità, vuol dire colpire i redditi palesi, ignorando quelli nascosti al fisco, rendere gli onesti più poveri ed arricchire gli evasori.

L’Italia palese paga le tasse, quella occulta molto poche. Metà dei contribuenti presenta dichiarazioni dei redditi lordi annuali tra 15 e 50mila euro, il 5,3% dichiara oltre 50mila euro di reddito, e 12,9 milioni di italiani sono Irpef-esenti perché troppo poveri. L’Istat certifica che l’Italia resta il Paese dell’economia sommersa, stimata intorno a 210 miliardi, compresi i ricavi dell’economia criminale. Come ha recentemente certificato il ministero dell’Economia e delle Finanze, questo equivale a 108 miliardi evasi. Poiché la ricchezza immobiliare equivale a 6.300 miliardi e quella finanziaria a 4.400 miliardi, è palese che gran parte di queste derivano da entrate nascoste alla fiscalità generale. Il mondo della politica deve ripensare le scelte fiscali ammesso che esista la volontà di combattere l’evasione-elusione fiscale e la criminalità finanziaria.

L’evasione fiscale in Italia è ormai una malattia cronica e mai davvero combattuta (se nella Seconda Repubblica l’evasione fosse stata effettivamente combattuta, il rapporto debito/ Pil sarebbe oggi del 60 per cento), favorita da un sistema tributario troppo complesso e da un esteso partito degli evasori, oltre che da una mortificante assenza di senso civico che ci spinge a considerare lo Stato come un’entità esterna e spesso ostile.

Combattere l’evasione e, nello stesso tempo, riqualificare la spesa, abbassare la tassazione sulla produzione di reddito, aumentare quella su rendite e ricchezza (di quel famigerato “1%). La tecnologia consente ormai di digitalizzare i pagamenti ed eliminare il contante. I “pagamenti elettronici di prossimità” potrebbero diventare un mezzo di pagamento di uso corrente, come le carte di credito. In tale prospettiva, la Gran Bretagna ha proposto di eliminare la moneta cartacea, per rendere ogni transazione verificabile in modo da diminuire l’evasione fiscale. È necessario inoltre introdurre una riforma fiscale che renda il fisco meno bizantino mediante normative semplificate e accorpamento delle imposte minori, oltre alla ormai non più differibile digitalizzazione dei pagamenti.

A proposito di quest’ultimo aspetto una strada percorribile è quella dell’eliminazione del contante, un esperimento introdotto in Corea del Sud nel 1999, quando il sommerso sul Pil era del 18 per cento: tecnicamente, si introdusse un sistema di deduzioni fiscali per acquisti effettuati elettronicamente e le ricevute di tali transazioni entrarono in una lotteria nazionale. Il risultato così ottenuto è valso quasi il 2 per cento del Pil. Se si volesse cambiare davvero, questo sarebbe un buon inizio.