Tra le  cose che facciamo, raccontiamo storie. Dalla chiacchiera da bar alle strategie delle campagne elettorali, dai libri ai cinema, dalla pubblicità all’ultimo insopportabile reality: raccontiamo storie, elaboriamo immaginari che possono citarsi e decostruirsi a vicenda, lottare tra di loro, emancipare i lettori o contribuire a rinsaldare le cornici del pensiero dominante. Su queste faccende si interroga, con i ferri del mestiere della narratologia, della semiotica del testo e delle discipline strutturaliste, Yves Citton, autore di Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (Alegre, 2013, pp. 271, euro 20, traduzione di Giulia Boggio Marzet Tremoloso).
Come si guadagna l’attenzione del lettore? Come si sollecitano le sue reazioni emotive e cognitive, si agganciano le riflessioni e i ragionamenti con la forza del riso e delle lacrime, della fierezza e dell’umiliazione? Esiste un modo enunciazionale tipico di una narrazione di sinistra, che sia emancipatoria e non elitaria? Che alimenti un immaginario popolare? Come possono alcune storie farci diventare quel che «dovremmo essere»? Per rispondere, Citton elabora una complessa teoria del sapere e del potere che arriva fino al campo testuale e alle sue implicazioni pragmatiche e perlocutive. Pagato il suo debito con Tarde, Deleuze, Guattari e Lazzarato, la riflessione dell’autore è ancora più intrigante quando si inoltra in quella zona magnetica in cui il potere circola tra gli attori sociali in «flussi di desideri e di convinzioni». In questo campo (magnetico, ma anche semiotico) si formano strategie testuali che catalizzano emozioni e influenzano opinioni. Queste strategie altro non sono che le storie raccontate e la nostra realtà è «un’immensa accumulazione di racconti».
Il problema è che gran parte di questi racconti, ci avverte Citton, sono storie che alimentano un immaginario di destra. Mentre la sinistra rispetta il dogma di certo postmodernismo e si rifiuta di «raccontare storie», la destra utilizza a mano le cosiddette «narrazioni tossiche»: la storia degli «immigrati criminali e stupratori», dei rom «ladri di bambini», la storia dei «finti invalidi che truffano l’Inps» o la storia «dei vecchi operai tutelati che in fabbrica andavano solo a timbrare il cartellino», per esempio. Qui in realtà stiamo adattando al frame italiano gli esempi di Citton, ma il plot è lo stesso: queste storie sono impiegate per smantellare il welfare, servono come distrattori sociali per disciplinare i lavoratori migranti o evitare la solidarietà tra generazioni di sfruttati contro un nemico comune padronale. Di fronte a tali affabulazioni, la sinistra non riesce a elaborare un immaginario alternativo e si trova a inseguire una strategia narrativa di destra, cambiando solo i nomi ai protagonisti delle proprie storie, senza alterare il plot.
Ovviamente ci sono storie che confermano il sistema di valori in cui siamo inseriti e altre che lo ribaltano. Ma quel che conta, ci sono storie che muovono dal basso, che sono egalitarie ed emancipatorie e altre che discendono dall’alto, che irreggimentano e propagano i canoni del senso comune. Quelle «liberatrici» portano a galla ciò che l’antropologo statunitense James C. Scott chiama i «verbali segreti», i discorsi che i subalterni fanno dietro le quinte. Sono discorsi alternativi al discorso ufficiale, al public transcrit egemonico. La forza delle storie dal basso è quella di portare alla ribalta i verbali segreti, i discorsi dei subalterni, degli sconfitti, dei dimenticati, dei colonizzati, dei proletarizzati.
Il verbale segreto è composto da storie dal basso che spingono verso l’alto, in direzione opposta all’oppressione. La sfida per uno storytelling di sinistra è scovare le narrazioni dal basso (nascoste o dimenticate nel flusso comunicativo mainstream) per spingerle avanti, perché aprano la strada a nuove rivendicazioni ed emancipazioni, perché «le indignazioni, le speranze e i sogni» che, di solito, si esprimono lontano dal potere diventino enunciazioni dirette e trasformino la realtà.