Il filo rosso che unisce i film di questa edizione 72 del festival di Venezia secondo il parere del direttore Alberto Barbera è quello di ispirarsi alla realtà, soprattutto a causa delle grandi trasformazioni epocali che stiamo vivendo. Il film di nazionalità messicana che inaugura la sezione Orizzonti, Un monstruo de mil cabezas (Un mostro dalle mille teste) di Rodrigo Plà sembra proprio corrispondere a questo canone, o almeno a quello che passa per la testa della gente comune che si trova in situazioni simili a quelle raccontate nel film. Una pistola impugnata al momento giusto contro vesssazioni di enti, istituzioni, assicurazioni, in questo caso il sistema sanitario privato, insomma contro il potere cieco nei confronti del cittadino impotente. Una fantasia che in genere passa in un lampo durante il lento scorrere di file che durano ore dietro a muti sportelli, nel passare da un ufficio all’altro, da una coda all’altra.

 

 

Mentre in Italia questa frustrazione si esprime al meglio con le scenette del Soliti idioti, qui siamo nel duro Messico, che ha dato origine ad alcuni dei film più violenti degli ultimi anni (oltre che a una visibile rinascita della cinematografia). Eppure nell’incipit il film sembrerebbe una riflessione sul dolore, dove una donna, Sonia Bonet, soccorre il marito malato di cancro durante una crisi più forte del solito. Ma lei è una donna d’azione e cerca di mettersi in contatto con il medico perché disponga una cura più efficace. Il sistema delle assicurazioni private in Messico, in mancanza di una legge che assicuri la salute come diritto fondamentale, funziona in modo tale che le richieste troppo costose vengano respinte d’ufficio, nonostante le grosse cifre versate a copertura. In un crescendo molto interessante perché inaspettato la donna tira fuori il revolver e cerca di riportare alle loro responsabilità medico e direttore dell’assicurazione per farsi firmare il documento che permetterebbe la cura.

 

 

Le ambientazioni che attraversa la donna accompagnata dal figlio adolescente, reticente ma protettivo, non sono una cornice secondaria, costituiscono una nota dominante dello stile di Rodrigo Plà che nel suo esordio La zona premiato come migliore opera prima alla mostra di Venezia nel 2007 delimitava nettamente il territorio dei poveri delle favelas e dei ricchi blindati nelle loro ville sorvegliate da monitor e vigilantes. La determinazione a proseguire nella scelta intrapresa dal protagonista deciso a penetrare nella zona proibita era in quel film un altro elemento chiave, come in questo dove la donna non esita di fronte a niente per ottenere la firma che gli consente di accedere alla cura. Esiste però il gioco labirintico che porta anche qui a penetrare nei luoghi esclusivi dei privilegiati, nelle loro saune, negli appartamenti blindati, introducendosi a bloccare una partita di tennis o di squash, un fine settimana tranquillo e a creare un ulteriore gioco di specchi si inserisce nel fuori campo il dibattimento della causa futura che vedrà imputata la donna con le testimonianze di quanti hanno assistito agli eventi e anche ai giochi poco chiari dell’assicurazione.

 

 

Il regista, qui al suo quarto film, è nato in Uruguay, ma ha studiato e risiede in Messico e in Uruguay ha girato, La demora (2012) che mostra come i cittadini più deboli siano abbandonati dalle istituzioni che dovrebbero proteggerli. La frammentazione di situazioni e personaggi che costringe il pubblico (del tipo «io, la giuria») a prendere posizione nasce in Un Monstruo de mil cabezas anche dal fatto che il film è tratto dal romanzo di Laura Santullo usato come complesso canovaccio di lunghe prove per accedere infine alla sceneggiatura definitiva, invitati a procedere in questo modo anche dal fatto che la protagonista, Jana Raluy è un’attrice di teatro. Anche nel romanzo le diverse voci dei personaggi si sovrappongono invitando il lettore a prendere posizione. Tutti parlano in prima persona. «Questa caratteristica l’abbbiamo portata nel film, dice il regista, la diversità dei punti di vista mette in evidenza la problematica etica. Ci piacciono i personaggi che possono scegliere, trovarsi di fronte a un dilemma etico che li aiuti a prendere decisioni e forse sbagliare. Penso che lo sguardo dell’altro è fondamentale. Si tratta, aggiunge, di una frammentazione che aiuta a tenere viva la tensione dello spettatore. Quando si fa cinema si gioca un po’, abbiamo giocato con questo tipo di narrazione».

 

 

 

Confessa poi che la situazione lo ha toccato personalmente poiché suo padre è morto di tumore, di gioco si tratta fino a un certo punto, tanto che uno dei temi messi in evidenza dal film, lo sottolineano anche gli autori, è l’incapacità della protagonista di arrendersi al lutto. «Un punto in comune con La Zona è la forte emozione della protagonista, nel momento in cui ha un cedimento. L’assenza dello stato crea un vuoto e il cittadino si trova di fronte a un muro».