«Nella decorazione degli interni, se non nell’architettura esterna delle loro residenze, gli inglesi sono supremi. Al di là di marmi e colori, gli italiani hanno poca sensibilità. In Francia, meliora probant, deteriora sequuntur»: così decretava il ‘gotico’ Edgar Allan Poe nella Filosofia dell’arredamento, un saggio pionieristico nell’America del primo Ottocento, alla quale egli attribuiva non un’«aristocrazia del sangue» ma – meno ovvio – «un’aristocrazia del dollaro, il display della ricchezza». Una verità sonante se proiettata nel corso dei decenni, perché fu proprio un’americana della danarosa borghesia della fine di quel secolo – un tempo in cui il collezionismo e le sontuose dimore riplasmavano l’anima di Manhattan – a rilanciare il culto dell’arredamento, distanziando i radicati stili Chippendale e «coloniale» (o «georgiano»). Edith Wharton aveva densa cultura artistica, acquisita anche con la frequentazione dei palazzi nobiliari europei, una competenza che ella mette al servizio pubblico in vari interventi sul pittoresco architettonico, le ville e i giardini italiani, le espressioni del «gusto» francese e, appunto, la cura degli interni, oggetto di La decorazione della casa (traduzione di Anna Maria Paci, Elliot, pp. 335, e 30,00), opera scritta e illustrata (cinquantasei fotografie un po’ usurate) in collaborazione con l’architetto Ogden Codman Jr. e pubblicata nel 1897.

Scrupolosamente documentato (bibliografia in francese, inglese, tedesco e italiano), corredato di un dettagliato indice analitico (alari, arazzi, armadi, bergère, camini, carta da parati, contenitore per la legna, e così via), con questo «alfabeto» organizzato per ambienti Wharton si propone di indirizzare il gusto verso un contenimento di quel «display» (l’«accozzaglia di ornamenti eterogenei») notato da Poe sessant’anni prima (sul «gusto» speciale di E.A.P. si rilegga, invece, per esempio, Ligeia) e la conciliazione di tradizione e nuove esigenze della modernità. La modernità incombente (si pensi solo ai nuovi sistemi di riscaldamento) è una delle ragioni che muovono l’intelligenza e la penna della futura autrice dell’Età dell’innocenza – il bel romanzo ‘decorato’ su una New York in via di sparizione – alla ricerca del confortevole e del «solo necessario», confermando lo spirito pragmatico americano anche nella progettazione e nell’uso della casa, o delle case se si distinguono la casa di città e quella di campagna.

Altrettanto pragmatico era, tuttavia, lo scopo architettonico-decorativo nei secoli passati: la predilezione per l’arazzo, per esempio, è più diffusa al Nord perché nasceva dall’esigenza di una maggiore protezione dal freddo; così pure il legno per pareti e soffitti assicurava più calore dello stucco. In Italia si inizia a perdere l’uso del soffitto a cassettoni a partire dal tardo Quattrocento quando si va affermando la volta affrescata, come nella Camera degli Sposi del Mantegna con quell’effetto aereo curiosamente ‘balconato’. Osservazioni simili valgono per le porte: nelle dimore nordiche dovevano essere più piccole per ragioni di sicurezza, un fattore da cui erano esenti i portoni monumentali dei palazzi italiani protetti dalla cinta della città-stato.

Un’altra curiosità riguarda i «mobili». Nel lessico medievale essi rimandano a qualcosa che, ancora per ragioni di sicurezza, i signori feudali potevano spostare da una dimora a un’altra: «Meubles sont apelez qu’on peut transporter». Di qui la scarsa varietà di mobilia fino al XVII secolo «e la sua inadeguatezza rispetto ai canoni della vita moderna». Sedie e armadi venivano caricati a dorso di mulo, per cui la forma si adeguava a uno stile rigido: «Non è esagerato affermare – nota Wharton – che prima della poltrona Luigi XIV non vi sia mai stata una sedia confortevole nel senso moderno del termine, e la bergère imbottita, antenata della nostra sedia a braccioli rivestita di tappezzeria, non può essere fatta risalire oltre la Reggenza».

Con l’invito al comfort e al funzionale quali principî di rigore nei tempi nuovi, Wharton non trascura la conservazione, mettendo in guardia dalla tendenza, soprattutto femminile, «a voler cose perché gli altri le hanno» e, all’estremo opposto, dalla rinuncia «alle cose perché sono fuori moda». Il «superfluo» («la stanza moderna ha perso il suo equilibrio a causa della confusione tra ciò che è essenziale e ciò che è secondario nella decorazione») è il frangente che Wharton maggiormente teme in un’America che va cambiando e si mostra presa da «un’ateniese sete di novità non sempre temperata da un ateniese senso della misura», cedendo al richiamo dei mobili in serie in «finto stile», o «in princisbecco», pari agli esemplari che «inondano i nostri negozi sino a straripare sui marciapiedi».

A differenza di quello di Poe, il gusto di Wharton si ispira per lo più all’Italia rinascimentale (modelli preferiti sono i Palazzi Ducali di Mantova e Urbino e Palazzo Te), o settecentesca (Genova soprattutto: il Palazzo Reale e il Parodi) e alla Francia dei Luigi XV e XVI. In Inghilterra l’occhio si volge invece al revival palladiano, introdotto da Inigo Jones e proseguito da Christopher Wren e – in Francia – da Ange-Jacques Gabriel, destinato a cambiare «il gusto nordico», e ad attecchire nell’America neoclassica di Jefferson, sostituendo lo stile Tudor. In effetti, quella moda fu così diffusa da produrre un molto seguito Vitruvius Britannicus (1725), compilato da Colen Campbell, il fondatore, a sua volta, dello stile «georgiano». Poca simpatia ella mostra per il Neogotico di Viollet-le-Duc (e di Ruskin) e, tutto sommato, il suo cuore resta vincolato al calore italiano: «Nella concezione anglosassone – scrive – la bellezza non scaturisce istintivamente dai desideri materiali come accade per i popoli latini. Noi dobbiamo rendere belle le cose: esse non sono tali in se stesse». A illustrazione della fusione di funzionalità e bellezza, persino in pezzi apparentemente banali, cita i cassoni nuziali dipinti da Botticelli: non c’è dubbio che avesse conoscenze raffinate.

Quanto serve questo dotto excursus alla casa moderna? Molto, se si presta attenzione al rapporto coltivato nel passato fra «decorazione e arredamento», risponderebbe Wharton, e fra «proporzione e decorazione», che è analogo a «quello fra anatomia e scultura: le leggi universali sono sotterranee». Di qui nasce l’elogio del ‘non-superfluo’, una scelta difficile da imporre all’ambizione moderna e spendacciona: «la suprema eccellenza è la semplicità». A tale fine tende il percorso virtuale da lei tracciato nella Decorazione della casa, opera e dimora enciclopediche in cui entriamo seguendo la strada che dall’esterno conduce via via verso gli interni: porte; finestre; camini; soffitti e pavimenti; ingresso e vestibolo; hall e scale; salotto, boudoir e morning-room; sale delle feste: salone, salone da ballo, sala da musica, galleria; biblioteca, fumoir e ‘tana’; sala da pranzo; stanze da letto; e, quindi, sala da studio e stanze dei bambini; infine: bric-à-brac.
E la stanza da bagno? Anche qui non manca un buon consiglio: «Il principale difetto della stanza da bagno americana è che, per quanto splendidi siano i materiali impiegati, la decorazione non è mai architettonica. Uno sguardo alla bellissima stanza da bagno di Palazzo Pitti a Firenze (decorata da Cacialli, fine Settecento, n.d.r.) rivelerà quale effetto possa essere prodotto da una composizione accurata in un piccolo spazio. Un semplice stanzino è qui trasformato in una stanza sontuosa grazie a quel rispetto dell’armonia degli elementi che distingue l’architettura d’interni dalla semplice decorazione». Proviamo a imitarla?