Una delle cose che sorprende dell’invasione dell’Ucraina è come le truppe di occupazione russe e i civili ucraini interagiscano tra loro. Non solo a colpi di fucile e di cannone, ma anche con le parole. A Kherson abbiamo visto folle disarmate di civili – donne, bambini, anziani – che insultano soldati russi armati senza che questi potessero fare altro se non sparare in aria. Nella periferia di Kiev, tre soldati armati si sono intrufolati in una casa privata, forse alla ricerca di qualcosa da mangiare, ma due vecchietti li hanno messi in fuga strillando. Ci siamo commossi di fronte alle immagini di un giovanissimo prigioniero russo in lacrime, nutrito e consolato da donne ucraine, fino al punto che gli hanno prestato il proprio cellulare per farlo parlare con la madre in qualche remota regione della Siberia.

Non sono ancora bastati migliaia e migliaia di morti per far odiare i due popoli. Ma quanto durerà? Nella ex-Jugoslavia, chi voleva smembrare il paese doveva in tutti i modi fomentare l’odio, obbligando le parti in causa a schierarsi da una parte. Per aizzare il genocidio in Rwanda, una delle etnie doveva scatenare l’abominio sull’altra. Non è certo una novità: se si vuole sobillare un conflitto, specie se di natura etnica, bisogna forzare le persone a schierarsi. Ce lo insegna l’ultimo film di Kenneth Branagh sulla sua natìa Belfast.

Che ancora oggi non ci sia un odio diffuso tra russi e ucraini è il più grande fallimento di Vladimir Putin, un fallimento ancora più importante dei suoi insuccessi militari. Putin si starà chiedendo in questi giorni: può questa invasione continuare senza generare disprezzo tra le parti in causa? Come posso provocare una violenza tale da rendere la coesistenza presente e futura impossibile?

Visti i limitati progressi del suo riluttante esercito, Putin ha bisogno che nel teatro di guerra arrivino gruppi armati pronti a tutto. E ha bisogno di trovarli tra i criminali comuni, i disperati, i mercenari. Ramzan Kadyrov, il feroce leader ceceno, aveva annunciato di essere a Kiev, ma non con l’esercito regolare, bensì con il suo gruppo para-militare ben noto per le torture e gli assassini compiuti. Sembra che il governo russo sia addirittura pronto ad arruolare truppe mercenarie siriane e della Repubblica centrafricana, soldati che hanno già visto e seminato il terrore.

Mosca non ha certo bisogno di altri militari, ma potrebbe aver bisogno di squadroni della morte pronti a tutto. Non è diversa la situazione in Ucraina: come ha denunciato il Washington Post, certamente non una testata filo-Cremlino, ci sono gruppi di balordi neo-nazisti che non vedono l’ora di usare il conflitto per scatenare la caccia al russofono.

Un eventuale smembramento dell’Ucraina richiederebbe forzosamente una pulizia etnica, come già avvenuto per il Donbass. Nella ex-Jugoslavia, stupri e torture sono stati gli strumenti per rendere impossibile la convivenza futura. E se non si ferma subito la guerra, c’è il pericolo che lo stesso avvenga in Ucraina.

Putin deve oggi usare il pugno di ferro per reprimere l’opposizione interna con una brutalità che non si era mai vista in Occidente. A confronto, finanche gli Stati Uniti sono stati più clementi nei confronti di chi opponeva alla guerra del Vietnam o all’invasione dell’Iraq. Ma Putin deve impedire che qualcuno ricordi che il popolo russo non ha alcun bisogno di distruggere l’Ucraina. Specie se, come tardivamente dichiarato dal Presidente Zelensky, il Paese non entrerà nella Nato.

Gli interventi della società civile diventano preziosi per radicare in chi vive in Russia e in Ucraina la convinzione che non c’è alcuna inimicizia insormontabile tra i due popoli. E che due stati autonomi possono coesistere con la stessa armonia che dal 1945 in poi regna tra Germania e Austria, due Paesi con storia, lingua e cultura comuni, ma con amministrazioni del tutto distinte. Tutelando le minoranze linguistiche in tutte le aree.

Gli scienziati russi hanno coraggiosamente firmato un appello contro la guerra dove si dice che «l’Ucraina è Stato e continua ad essere un Paese a noi vicino. Molti di noi hanno parenti, amici e colleghi che condividono le nostre ricerche scientifiche. I nostri padri, nonni e bisnonni hanno combattuto assieme contro il nazismo. Scatenare una guerra per le ambizioni geopolitiche del governo rappresenta un cinico tradimento perpetrato alla loro memoria». Per fermare l’odio, servirebbero decine e decine di appelli congiunti tra i rappresentanti della società civile dei due Paesi: scienziati e sindacati, musicisti e attori, enti locali e associazioni dovrebbero oggi far sentire la propria voce per evitare che la convivenza futura diventi impossibile. E chissà che questi appelli di carta non si dimostrino più efficaci dell’invio o della vendita delle armi.

* Daniele Archibugi, Cnr, è il coordinatore della Scuola di Dottorato Che cosa è un popolo? Controversie sociali, politiche e legali, che si aprirà alla Venice International Università a fine Marzo 2022