Cos’è questo Enrico e Francesco. Pensieri lunghi che Pietro Folena ha da poco pubblicato per Castelvecchi (pp.288, euro 17,50? È una traccia indispensabile per orientarsi nel tempo e nello spazio di una sinistra in crisi. Il libro si compone di tre parti: una selezione di discorsi e di scritti di papa Francesco e di Enrico Berlinguer, accostati in un dialogo impossibile sulle grandi questioni del nostro tempo; la nuova edizione de I ragazzi di Berlinguer (1997); un saggio conclusivo, dal titolo paradigmatico (L’evaporazione), che guarda lontano.

Contro una politica che è schiava del presente e della contingenza, Folena propone pensieri lunghi. E ci dice che per avere un futuro è necessario innanzitutto riconoscere il nostro passato. Essere «rivoluzionari e conservatori» (per usare la felice endiadi di Berlinguer) vuol dire avere la consapevolezza che siamo parte di quella tradizione e che anche per questo abbiamo il compito di individuare sentieri nuovi.

BERLINGUER È UNA GUIDA e, al contempo, la conferma di questa continuità. Non si comprende il compromesso storico se non si torna alla lezione di Togliatti, al discorso del 1963 sul «destino dell’uomo» che il segretario del partito nuovo tiene a Bergamo, nella città di Papa Giovanni XXIII. E se non si coglie fino in fondo l’eco di un’attenzione lunga del Pci verso la Chiesa di Paolo VI e di una Populorum progressio che chiamava «tutti agli uomini di buona volontà» all’obiettivo dello «sviluppo integrale dell’uomo» e dello «sviluppo solidale dell’umanità».

Berlinguer, dopo il colpo di stato in Cile del 1973, rivendica fino in fondo il campo della democrazia, intesa non come procedura ma come coinvolgimento progressivo di larghi settori sociali fino ad allora tenuti ai margini del governo. Il rapporto con la Dc, la difesa dello Stato democratico negli anni del terrorismo, vanno collocati qui. Negli anni successivi, nel dialogo con le nuove istanze che irrompono nella società, dal movimento delle donne a quello pacifista, Berlinguer allarga e valorizza radicalmente la nozione di democrazia, intesa ora come riappropriazione quotidiana delle varie funzioni di governo.

La lotta davanti ai cancelli della Fiat nel 1980 è il simbolo di un rapporto non solo istituzionale, non mediato, non burocratico con la classe operaia. Nelle immagini di Torino, in quel Berlinguer così severo e così fragile, vi è la cifra di un’idea della politica come strumento per riconsegnare dignità al lavoro, alla vita umana.

A QUEST’ALTEZZA si coglie il terreno d’incontro tra Berlinguer e papa Francesco. Il primo vede l’inizio e il secondo la fase matura di quello che Pasolini negli Scritti corsari definiva lo «sviluppo senza progresso». Le parole di Berlinguer sono profetiche perché anticipatrici, quelle di Bergoglio perché spiazzanti, l’atto di accusa definitivo contro il tempo presente. Francesco scrive che i gemiti di sorella Terra si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo. Torna il «grido della terra e il grido dei poveri» del teologo Leonardo Boff.

Contro questo antropocentrismo malato Francesco e Berlinguer propongono un nuovo umanesimo. Contro il profitto dell’uomo, l’essere umano. Contro il diritto inviolabile di proprietà e di sopraffazione, il diritto al lavoro. Contro l’individuo irrelato di tradizione liberale, la persona, l’essere umano integrale della tradizione cristiana, l’uomo totale, in grado di stabilire «rapporti autenticamente umani con il mondo» del Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.

CONTRO LA CULTURA dello scarto, la categoria della cura. Per Francesco essa è relazione amorosa e non dominatrice con la natura. Ma è anche etica individuale, nuovo stile di vita, perché «la sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante» (Evangelii Gaudium); ed etica pubblica, perché in questo modo diventa possibile «sentire nuovamente che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo». Il Berlinguer dell’austerità è molto vicino. La sua riflessione sul rapporto tra Nord e Sud del mondo, sulla redistribuzione della ricchezza e sull’urgenza di una nuova società, meno consumistica e meno individualistica, proprio a partire da una questione morale che irrompe nel giudizio sui comportamenti individuali e su quelli collettivi di partiti trasformati in «macchine di potere e di clientela», senza passione civile, senza ideali.

È il panorama desolante che Berlinguer vede intorno a sé nei primi anni Ottanta e che si impone definitivamente dopo la sua morte. Pietro Folena scrive nell’ultima parte del libro pagine incredibilmente lucide. Rileva la responsabilità del gruppo dirigente del Pci nel non avere colto dopo l’84 la radicalità profetica dell’ultimo Berlinguer e di averlo anzi, progressivamente, rimosso (Dimenticare Berlinguer è il titolo programmatico del saggio di Miriam Mafai del 1996) fino a perdere persino la capacità di elaborare una critica, un punto di vista autonomo.

È LA STORIA della terza via, dell’Ulivo mondiale, della stessa socialdemocrazia europea e ancora di più dei suoi epigoni, della lenta ma inesorabile mutazione genetica del centro-sinistra italiano degli ultimi anni.
Serve allora mettersi in cammino su vie nuove. Un’alleanza tra socialismo e cristianesimo può salvare dalla barbarie. Tra un pensiero di eguaglianza, fraternità e libertà nella democrazia e la grande organizzazione secolare del pensiero trascendente del cristianesimo. Il libro di Folena riparte da qui. Al segretario di quella Fgci figlia di Berlinguer in tanti si sono sentiti idealmente vicini, così come a quel dialogo che è tra Francesco e Berlinguer, ma anche tra le ultime generazioni, le precedenti e quelle che verranno dopo.

Giovanni Pascoli avrebbe scritto: «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico».