«Il futuro dei musei è nelle nostre case». È questa la profezia con cui Orhan Pamuk concludeva appena qualche anno fa il suo Modesto manifesto per i musei, una proposta in realtà per nulla modesta di ripensamento del ruolo e delle funzioni dell’istituzione. Certo, l’autore del Museo dell’innocenza, un romanzo e una piccola casa-collezione quasi nascosta fra i vicoli del quartiere di Cukurcuma a Istanbul, non poteva immaginare che negli ultimi mesi davvero il museo sarebbe entrato nelle nostre case, provando a occupare i nostri schermi quotidiani e il nostro tempo, improvvisamente sregolato, di immagini, racconti, consigli e richieste, laboratori-giochi e promesse. Sono state settimane quasi euforiche in cui moltissimi musei hanno dato prova di una reattività sorprendente dispiegando, magari non sempre in maniera così convincente, tutte le possibilità offerte dalla rete, lavorando di social e di condivisione, mettendo in virtuale mostra i propri gioielli, quelli esposti e quelli nascosti nei depositi o negli archivi. Sollecitando, come ha fatto James Bradburne con il progetto Brera ascolta, persino l’allestimento di personali musei domestici (e qui l’auspicio di Pamuk, sostenitore del passaggio «dai monumenti alle case, dalle nazioni alle persone», ha trovato piena risposta) oppure, più spesso, affidando agli artisti e, talvolta, ai curatori il compito di raccontarsi o di creare opere website-specific.
Un’effervescenza che, specie nelle regioni italiane più sofferenti, ha avuto senz’altro il merito di mantenere un positivo contatto con il pubblico, provando a sperimentare forme di coinvolgimento orientate soprattutto a rafforzare il ruolo che i musei devono avere nella vita sociale. Questa è del resto l’indicazione che viene dalla nuova definizione di museo proposta, dopo lunga e difficile gestazione, dall’ICOM (International Council of Museum) il luglio scorso. Una definizione centrata sui temi dell’inclusione, dell’accessibilità e della democratizzazione che ha fatto discutere e che la delegazione italiana dell’ICOM ha rigettato perché troppo poco attenta al valore degli oggetti, al significato storico del «patrimonio». Proprio il valore da attribuire al patrimonio culturale resta peraltro un punto cruciale e non privo di ambiguità in un Paese, il nostro, che non ha ancora portato a termine la ratifica della convenzione europea di Faro, dove la possibilità di fruire del patrimonio culturale, bene comune, viene sancita come un diritto umano universale e inalienabile.
In ogni caso, al di là dell’insopportabile mantra mediatico «la bellezza salverà il mondo» (ma poi lo salverà da chi? da che cosa?), la centralità che i musei hanno avuto in questi ultimi mesi si offre come un’occasione di riflessione richiedendo uno sguardo avvertito e anche smaliziato: come mai nell’annunciare la fase due il capo del governo ha proclamato per il 18 maggio l’apertura dei musei dimenticandosi, naturalmente a memoria, di dare notizia di scuole e università? Sarà perché è soprattutto nelle sale dei (grandi) musei come nelle (monumentali) piazze delle città d’arte che il Paese si vuole riconoscere e orgoglioso mostrare?
In ogni caso, che il destino dei musei sia un aspetto tutt’altro che marginale per la vita dei cittadini è un dato assodato, di cui tener conto a partire però dalla consapevolezza che il museo pubblico, nato come ricorda Georges Bataille «con la ghigliottina», è uno spazio di conservazione, di esposizione e anche, e forse soprattutto, di produzione culturale. Ma come si sta profilando la vita dei musei in questi primi giorni di riapertura? Quali sono le direzioni più interessanti che possono intraprendere nel tempo del distanziamento fisico? Complessivamente, il quadro è ancora incerto, e non potrebbe essere diversamente in una situazione tuttora piena di incognite, non soltanto sanitarie. A fronte di alcune riaperture tempestive e determinate – la Galleria Nazionale a Valle Giulia ha rinunciato al suo tradizionale lunedì di riposo per essere pronta il 18 maggio, giornata internazionale dei musei, ad aprire le sue sale, in parte riscritte per l’occasione – non sono pochi i musei che ancora cercano soluzioni per fronteggiare un cambio tanto necessario quanto radicale di paradigma: se negli scorsi anni l’obiettivo è sempre stato quello di aumentare le presenze, di migliorare la performance innanzitutto in termini di quantità, puntando soprattutto sui grandi musei e sui grandi attrattori, resi autonomi e affidati da Franceschini a direttori selezionati attraverso bandi internazionali, oggi si impone una riduzione o, almeno, una drastica riorganizzazione dei flussi. Non più code domenicali, dunque, non più folle vocianti accalcate di fronte ai capolavori da fotografare, non c’è più spazio per quel pubblico un po’ disordinato e spesso distratto che Thomas Struth ci ha mostrato negli ultimi scatti della sua serie Museum photographs, foto dove le opere ormai non si vedono neppure più, cancellate dai corpi indisciplinati dei visitatori.
Per forza di cose, bisognerà svuotare le sale e ripristinare una relazione più intima con le opere, che non significa però, va detto, serrare le porte e dare ragione a Jean Clair, da sempre nostalgico delle silenti gallerie abitate soltanto da amatori e studiosi. Si tratta, piuttosto, di creare condizioni di visione più distese, di dare ai corpi e agli sguardi una giusta distanza per rendere possibile lo scambio: visite colloquiali per gruppi ristretti, aperture orarie più lunghe, percorsi differenziati per evitare incroci pericolosi. E, naturalmente, ancora tanti contenuti sul web, senza però ritenerli sostitutivi dell’esperienza dell’opera.
Accanto alla fruizione in situ delle collezioni, cruciale quanto problematica soprattutto per i grandi musei , non va poi dimenticato il lavoro di produzione, di committenza di opere di pensieri e di processi (è questa la direzione scelta dal Mambo con il progetto Nuovo Forno del Pane). Interventi che possono trovare spazio anche fuori dalle mura del museo, nei luoghi aperti della città, nei quartieri a bassa densità turistica e ad alta tensione sociale. E anche negli spazi chiusi, nelle scuole speriamo presto ripopolate, come pure in quei luoghi che come e ben più del museo sono «istituzioni di internamento» (Crimp), nelle residenze per anziani e nelle carceri. Luoghi in cui il virus è stato feroce e dove il museo dovrebbe ora entrare o ritornare con le sue opere – la GAMeC di Bergamo in passato ha già varcato i cancelli della locale casa circondariale – e soprattutto con le sue visioni libere. Perché, lo ha ricordato il decano degli storici dell’arte Hans Belting, il museo non è fatto di cose ma di azioni di valore.