Ieri il Committee to Protect Journalists (Cpj), organizzazione internazionale per la libertà di stampa, ha annunciato i quattro vincitori del premio annuale Press Freedom Award. Accanto all’indiano Subramaniam e al salvadoregno Martinez, emergono con prepotenza due simboli della stampa indipendente nel mondo arabo.

Entrambi passati per le prigioni dei rispettivi paesi, tra i premiati ci sono Can Dundar, direttore del quotidiano turco Cumhuriyet, e Mahmoud Abu Zeid (noto come Shawkan), fotoreporter egiziano. «Questi coraggiosi giornalisti hanno rischiato la libertà e la vita per raccontare alle loro società e alla comunità globale eventi critici», ha commentato Joel Simon, direttore di Cpj.

La storia di Dundar e del collega, il caporedattore Gul, è lo specchio della dura campagna repressiva della stampa indipendente intrapresa da anni dal governo turco, ma anche della benzina sparsa da Ankara sul fuoco della vicina guerra civile siriana. I due sono stati detenuti alla fine del 2015 per 90 giorni per reportage che svelavano la tentata consegna da parte dei servizi segreti turchi di camion carichi di armi a gruppi islamisti attivi in Siria.

Una vicenda esemplare della censura di Stato imposta dal governo dell’Akp: se 33 giornalisti (per lo più kurdi) sono ancora dietro le sbarre, solo nei primi tre mesi dell’anno 894 reporter sono stati licenziati, due quotidiani e un’agenzia stampa sono stati commissariati e quasi 105mila siti web sono stati oscurati (dati del britannico Press for Freedom).

Ma se Dundar (a piede libero in attesa dell’appello dopo la condanna a 5 anni con l’accusa di aver svelato segreti di Stato), dovrebbe essere presente alla premiazione a New York il 22 novembre, Shawkan sarà il grande assente: è in carcere dal 14 agosto 2013, arrestato mentre copriva le proteste dei Fratelli Musulmani al golpe di al-Sisi, in quello che si rivelò uno dei più orrendi massacri della storia dell’Egitto (a Rabaa al-Adaweya furono trucidate tra le 800 e le mille persone).

Abu Seid è in prigione da tre anni senza una sentenza di condanna: un processo è stato aperto solo lo scorso anno, l’ennesimo processo di massa che vede coinvolti 700 imputati. Anche il suo non è che uno dei tanti esempi della campagna di censura che in Egitto sfocia in pene di morte (è il caso di tre giornalisti di al-Jazeera accusati di aver passato informazioni coperte da segreto al Qatar) e raid nella sede del sindacato della stampa.