Come ci ha insegnato Artaud, il teatro fin dalle sue origini ha a che fare con la malattia – su tutto, la peste – nella misura in cui si libera e ci libera di determinate imposizioni per rivelarci verità che si possono solo testimoniare. Ma, per fare questo, esiste una regola aurea: non si produce una drammaturgia a monte da rispettare. A maggior ragione se poi è lo Stato a dettarla.
Dati gli sconvolgimenti causa Covid-19, abbiamo chiesto ai Leoni d’oro per il teatro Antonio Rezza e Flavia Mastrella di intervenire sulla situazione corrente del teatro italiano.

La situazione è grave ma pare anche seria…

Flavia Mastrella: Penso che il teatro, dopo il cinema, è stato veramente perseguitato da dieci anni a questa parte. Una situazione che si capiva sarebbe potuta crollare da un momento all’altro. Questo virus ha solo accelerato i tempi, perché in Italia il cinema, per esempio, era stato già distrutto nel 2000. Gli autori italiani, infatti, erano pochissimi e di scarsissimo interesse. Col teatro tutto è cominciato più tardi. Hanno iniziato – per esempio – a fare riunioni politiche, dichiarazioni per elezioni. Così, i teatri si sono inquinati.

Antonio Rezza: Posso affermare che è difficile dire quello che pensiamo in un paese così poco indipendente. Nessuno ha sostenuto: «il teatro deve restituire i soldi del Fus allo Stato». Noi viviamo in un Paese dove l’entrata principale è il turismo. I turisti vengono a vedere l’arte dei morti. Non vedo perché per i vivi di oggi, che saranno i morti di domani, non ci debba essere lo stesso rispetto che c’è per i morti di ieri. Questo perché accade? Perché lo Stato si è comprato l’arte. Ecco il motivo per cui non la rispetta. E non la riconosce. Tutto ciò che è tuo non è degno di attenzione. Noi rispettiamo solo le cose che non ci appartengono. Non ci sono altri giri di parole, non bisogna trottare intorno all’argomento. Questo è il discorso. E adesso ne paghiamo tutti le conseguenze. Ne paga le conseguenze – purtroppo – anche chi non si è fatto comprare. Questa è la cosa che mi fa più arrabbiare.

Comunque, si parla di una riapertura dei teatri il 15 giugno.
AR: Hanno deciso così perché i teatri a metà giugno sono chiusi. Pochissimi fanno la programmazione estiva fino a luglio. Ecco perché sono stati riaperti. Noi faremo degli spettacoli estivi di buon auspicio, affinché si ritorni a una normalità che non deve essere la normalità della mascherina. Non si possono riaprire i teatri dicendo «state tutti vicini con la mascherina». È un deterrente. Significa che l’istituzione ha ottenuto il distanziamento in modo naturale, non serve nemmeno più intimarlo. Tanto vale aspettare un anno e non andare in scena. Qui viene criminalizzato chi si abbraccia! Noi dobbiamo ritornare a quello che era prima perché ciò che è stato è sicuramente più evoluto di quello che ci aspetterà. Di quello che rischiamo che accada. Io spero che presto a teatro si ritorni uno vicino all’altro, senza orpelli e travestimenti. Ma immaginiamo uno spettacolo con le mascherine. Tutti con le mascherine. Tossisce uno e il panico si incunea tra gli altri. Tossisce un altro e non finisce più. Non vedi più l’espressione del volto! Il teatro è un rituale. Non va cambiato. «Qualcuno dice ripensiamo al teatro», certo, ma quando lo decido io.

FM: La questione è anche un’altra: per mantenere integra la disciplina del teatro non si deve cedere al monologo a ogni costo, o alla riduzione di flusso sulla scena. Non si deve cedere a questo, perché altrimenti diventerebbe poi una regola. Ci chiedono invece di trovare un’altra soluzione. Ma allora non è più teatro. Se dobbiamo difenderlo, beh, il teatro è quello che è. Si rinnova da solo, non c’è bisogno che venga qualcuno da fuori a farlo.

C’è chi condivide il vostro pensiero oggi nel contesto del teatro italiano?
FM: I teatri stabili e il teatro dell’opera: sono solo questi a rappresentare una variegata realtà. Non ho sentito tante interviste a direttori di teatri indipendenti, persone che hanno tentato fino a poco fa di fare sperimentazione. È la continuità che non porta alla morte e la continuità già era stata interrotta.

AR: L’arte nasce libera, non nasce pagata dallo Stato. Le pitture rupestri non sono nate con le sovvenzioni. Artaud le sovvenzioni non le avrebbe mai prese. L’arte deve essere indipendente. Quello che mi ha indignato sono le disposizioni. Lo Stato che diventa Ronconi, si innalza a drammaturgo. E detta regole assurde: dovete stare a un metro, due metri con la mascherina se parlate, se c’è azione performativa a quattro metri. Si entra nelle regole della messa in scena, è come se io mi mettessi a fare una legge di bilancio. O tiro fuori una legge sull’immigrazione. Non sono in grado, non posso farla.
Lo Stato, se diventa commediografo, deve trasformarsi anche in Valcareggi, anzi in Nereo Rocco. Nel calcio mi proibisci il pressing perché il pressing porta alle squadre corte, cioè a una concentrazione di atleti in un piccolo spazio. E imponi la marcatura a uomo con due soli atleti ogni venti metri. E poi proibisci il basket, la pallavolo, il karate, tutti gli sport di palestra. Credo che se lasciamo passare questa prepotenza delle istituzioni, la prossima volta andrà peggio. Si è trattato di prove tecniche di sottomissione.

I problemi con la vostra ex sede (la «Divina Provvidenza» a Nettuno) mettono in luce un’altra questione importante: quella degli spazi per lavorare, ambienti cruciali per chi fa teatro.
AR: Siamo stati scippati del posto dove lavoravamo dopo 35 anni, dopo non aver chiesto – per 35 anni – un soldo, né allo Stato, né al Comune.
Io ho sempre detto questo: lo Stato deve dare gli spazi. Non deve dare i soldi. I giovani si devono trovare uno spazio dove lavorare, dato dallo Stato. Ma senza protezione economica. A noi hanno tolto anche quello, chiaramente facendoci diventare ancora più cattivi.

FM: Uno Stato migliore sarebbe quello che cura l’arte nei suoi luoghi. Ma – come detto – non finanzia, cioè non mette il bavaglio all’espressione, all’artista. L’artista magari può avere delle prestazioni gratuite, e quindi spendere meno.

Rimedi contro la situazione corrente?
AR: In questo periodo noi proponiamo questo, un programma morale (non moralista): lo Stato deve mantenere i teatri aperti, deve pagare gli amministrativi e i tecnici, ma l’artista che fa coincidere la sua esistenza con quello che fa, deve dare il segnale. Deve rifiutarsi di andare in scena fin quando non viene ripristinata una normale affluenza nelle sale. Voglio vedere che succede. Adesso lo scontro deve essere frontale. I primi a rimetterci saremmo noi. Poi, chiaramente, se nessuno aderisce a questa nostra proposta, o aderiscono in pochi, è evidente che anche noi ci riserveremo all’ultimo momento la decisione di andare o non andare in scena.
Ma sai poi qual è il rischio? Che quando lo Stato darà il permesso per ricominciare le prove, lo farà talmente tardi che molte compagnie proveranno in fretta e furia gli spettacoli in dieci giorni per non perdere i soldi statali. Dopo un anno di virus assisteremo a due anni di brutti spettacoli perché mal provati.

FM: Questa situazione rasenta l’emergenza della guerra. E durante la guerra, come anche molti film hanno raccontato, l’arte perde significato per un attimo. Aspettiamo tempi migliori, e intanto bisogna lavorare per trovare forme diverse.