Martedì la presentazione del rapporto sul «lavoro povero», ieri il tavolo con le parti sociali per lanciare il confronto sui temi della precarietà. Il ministro Andrea Orlando si impegna ad affrontare i nodi storici dell’occupazione in Italia. Ne parliamo con Emanuela Struffolino, ricercatrice in Sociologia economica alla Statale di Milano che ha fatto parte della commissione guidata da Andrea Garnero.

Dalla vostra ricerca emerge che nel 2019 – dunque prima della pandemia – un lavoratore su dieci aveva un reddito sotto la soglia di povertà e ben un quarto delle retribuzioni orarie era inferiore al 60% del valore mediano. Qual è l’importanza di questo studio e dei suoi risultati?
È una novità nel panorama italiano discutere di «povertà lavorativa». Si tratta di un tema che a livello europeo negli ultimi anni è molto trattato, specie da quando il fenomeno ha colpito paesi come la Germania che solitamente non aveva una “questione salariale”. Esiste un indicatore europeo – sebbene lo mettiamo in discussione – che colloca l’Italia decisamente agli ultimi posti dall’inizio degli anni duemila e ancor di più dopo la crisi del 2008. L’attenzione dimostrata dal ministro al tema è importante. Detto questo, va premesso che si tratta di una questione molto complessa anche perché noi analizziamo il salario come valore individuale mentre la povertà è calcolata a livello familiare.

Nella vostra ricerca si parla anche dell’effetto del Jobs act sulla povertà lavorativa?
Non direttamente. Ma qualsiasi politica che incentivi la frammentazione delle carriere lavorative porta a salari bassi a fine anno.

Veniamo alle vostre proposte per affrontare il problema. Ne fate ben cinque. Sul salario minimo però lasciate un’alternativa: introduzione di un valore generale o applicazione legislativa erga omnes dei minimi contrattuali a tutti i lavoratori del settore. Perché questa scelta?
Perché il problema è complesso. E dunque anche qui va fatta una premessa. Noi ci siamo limitati a proposte di tipo microeconomico che vanno integrate con politiche macroeconomiche. Solo la sinergia fra i vari interventi può combattere efficacemente il problema. Le nostre proposte cercano di tenere insieme diverse proposte. Sarà poi una decisione politica a scegliere, dopo aver definito l’obiettivo. Estendere erga omnes significa enfatizzare le differenze salariali che sussistono nei vari settori. D’altro canto definire un salario minimo orario generalizzato per legge omogenizza la situazione fissando un limite dignitoso.

La discussione fra esperti e sindacati è proprio questa: se si fissa un salario minimo generalizzato – si parla di 9 euro l’ora – il suo livello è inferiore a quasi tutti i minimi dei contratti nazionali e ciò potrebbe essere sfruttato dagli imprenditori per abbassare i salari e inficiare negativamente il potere negoziale dei sindacati.
Il rischio c’è ma nel caso della Germania questo non è successo. Il dibattito su questo tema anche lì è stato lungo. Poi nel 2015 il salario minimo è stato fissato ma gli aumenti contrattuali sono rimasti. Nel caso dell’Italia in molti settori i livelli salariali sono oggettivamente bassi: il salario minimo per molti lavoratori sarebbe una boccata d’ossigeno.

Proponete poi di rafforzare i controlli e incentivare le imprese virtuose che rispettano i contratti.
È fondamentale. Anche perché mancano moltissimi dati sui livelli salariali anche per individuare gli imprenditori che non rispettano i contratti.

Completamente innovativa per l’Italia è la proposta di un «in work benefit» – un supporto ecomico a chi lavora – che aumenterebbe all’aumentare del salario, almeno fino a una determinata soglia. E che andrebbe in parallelo con il reddito di cittadinanza.
Si tratta di uno strumento che aiuta le persone con salari bassi e che è previsto in circa la metà dei paesi Ocse. Consente di avere una crescita del reddito e ha l’obiettivo di non disincentivare il lavoro – critica fatta erroneamente al reddito di cittadinanza – fino a un certo punto. In Francia ad esempio si blocca quando il reddito lordo di una famiglia con due figli è di 45 mila euro. Lì ha permesso a molte famiglie di raggiungere uno standard di vita dignitoso rimanendo attivi sul lavoro.