«Contro il capitale» è il titolo di un articolo di Valentino Parlato pubblicato su questo giornale nel 1972 e riproposto, non casualmente, il 1 maggio scorso da il manifesto. L’invenzione di una società completamente diversa è quello di un pezzo di Luciana Castellina che, ancora il manifesto, ha pubblicato il 25 aprile di quest’anno.

I lineamenti profondi che uniscono i due scritti rappresentano la ragion d’essere del «quotidiano comunista».

DI FRONTE ALLE caratteristiche assunte dalla lotta di classe sulla «questione lavoro» nei primi anni Settanta, Parlato invita a leggere i momenti congiunturali del conflitto, che si manifestano nella quotidianità dello scontro, alla luce «del meccanismo di produzione e di riproduzione del capitalismo». Castellina indica la necessità di pensare una «società totalmente diversa» per imboccare davvero «la transizione a un nuovo modo di produrre e consumare».

I due articoli sono usciti in fasi storiche diversissime.

Il primo, quando una forza reale, sociale e politica, aveva piena coscienza della sua funzione di antitesi ad un modo di produzione che poteva essere combattuto e qualche volta vinto, per lo meno nelle manifestazioni contingenti della sua logica sistemica. Il secondo, in una fase in cui il capitalismo sembra aver occupato tutto l’orizzonte del pensabile. Un capitalismo sedimentato nel nostro inconscio, in modo da aver «colonizzato i sogni delle persone , un dato di fatto talmente accettato da non meritare più alcuna discussione» (M. Fisher, Realismo capitalista, 2018).

UNA FASE NELLA quale il capitale-totale ha riportato una vittoria su tutte le forme dell’antitesi, però, è anche una fase in cui, insieme all’antitesi, il capitale ha distrutto anche le possibilità di porsi dei limiti. L’illimitatezza è il fondamento del processo di accumulazione e, contemporaneamente, la sua principale contraddizione. Senza ostacoli, lasciata alla sua logica sistemica, tale tendenza diventa il meccanismo agente, fuori controllo, anche dell’intero panorama delle contraddizioni che caratterizzano il rapporto economia-società nell’odierno capitalismo-mondo.

In tale contesto la linea analitico-argomentativa che accompagna nel lungo periodo i testi di Parlato e Castellina è quella necessaria per distinguere ciò che è davvero «nuovo» dal «novello», come il beaujolais.

LE NUOVE FIGURE sociali, i nuovi sistemi tanto di dominio che di egemonia, la meccanica del mutamento complessivo, compreso quello antropologico, non sono comprensibili senza un’immersione totale nelle categorie critiche del capitale-proteo.

L’unica «chiara prospettiva (…) l’unica idea passione» (P. Bevilacqua, il manifesto, 11 maggio) che rende possibile ragionare sulla politica e praticarla strappandone veli e mistificazioni. Per la nostra parte, insomma, l’unica bussola per recuperare, insieme al senso delle parole, i significati sostanziali del conflitto politico.

Siamo immersi, infatti, in un labirinto di parole-concetto le quali, senza alcuna determinazione, dominano l’universo politico- mediatico e che, proprio tramite le nebbie prodotte dall’indistinzione, lo riducono a rappresentazione caricaturale.

TERMINI come sinistra, riformismo, progressismo, femminismo, ecologismo, ecc., sono usati soprattutto come segnali di fumo indicanti instabili posizionamenti. Così l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori può diventare atto di «riformismo progressivo».

Il fatto che esistano, ed in maniera tutt’altro che marginale, femminismi ed ecologismi (partiti verdi) che dichiarano di essere totalmente compatibili con gli assetti economico-sociali esistenti, non impedisce che siano comunque considerati parte di uno schieramento «progressista».

NELLA PREFAZIONE storica del 2011 ad una raccolta di suoi saggi degli anni Sessanta e Settanta, Alberto Asor Rosa afferma di aver trovato punti di riferimento fondamentali in quei grandi maestri letterari che, non avendo «bubbole progressiste nella testa», erano stati in grado di conservare uno sguardo «più limpido e penetrante» sull’esistente. Esattamente lo sguardo di cui oggi abbiamo estremo bisogno.

I grandi maestri, letterari e non, sono ancora lì, e le loro opere sono, per molti aspetti, ancora più attuali rispetto ai tempi di neocapitalismo, di «capitalismo progressivo» dei cosiddetti «trenta gloriosi». Non pare, però, che i nostri «progressisti» e i «coraggiosi» ritengano di aver bisogno di sguardi «limpidi e penetranti» nella complessità del capitalismo reale.