La Jawaharlal Nehru University (Jnu) è unanimemente considerata il fiore all’occhiello dell’istruzione universitaria indiana. Sorge in un complesso a New Delhi sud, una distesa enorme immersa nel verde dove dal 1969 migliaia di studenti, da dentro e fuori il subcontinente, godono di un lusso ormai raro nel sistema dell’educazione indiano: vivono, studiano e discutono in un ambiente libero nel senso più autentico del termine. Libero dalle costrizioni della società patriarcale, libero dalle pressioni della tradizione, libero dalle linee invisibili ma marcatissime che fuori, nel resto dell’India, dividono i ricchi dai poveri, i brahmin dai dalit, i musulmani dagli hindu, i «figli di» dai «figli di contadini».

A Jnu, grazie al sistema di istruzione pubblica sovvenzionato dal governo indiano, tutti hanno una chance di accedere a un’istruzione di primissimo livello, che negli anni ha formato generazioni di intellettuali, politici, economisti, scrittori e letterati progressisti.

Si può dire, senza esagerazioni, che Jnu oggi sia uno dei templi più sacri del pensiero critico indiano, un simbolo dell’India ideale dove le idee, come le gambe e le teste che le portano in giro, sono libere di muoversi e scontrarsi all’interno delle mura laiche che hanno tenuto fuori, per decenni, l’estremismo politico e religioso «dei grandi».

Il 13 febbraio scorso questo tempio laico è stato violato dall’ennesima ingerenza del governo in carica – guidato da Narendra Modi, a capo della destra hindu del Bharatiya Janata Party (Bjp) – attraverso l’intervento della polizia, sguinzagliata dal ministro degli interni Rajnath Singh a caccia di «elementi anti-nazionali, che non saranno risparmiati».

Il pretesto: una manifestazione dei collettivi studenteschi di sinistra – storicamente molto forti a Jnu nelle varie sigle che si rifanno al Partito comunista marxista leninista o maoista – assieme a non meglio identificati «studenti kashmiri», che il 9 febbraio hanno ricordato il terzo anniversario dell’impiccagione di Afzal Guru: indiano kashmiro giudicato colpevole di terrorismo per l’aiuto fornito alla logistica dell’attentato al parlamento di New Delhi nel 2001. Una sentenza che i kashmiri indipendentisti e una parte della sinistra indiana giudica un crimine di stato, avanzando dubbi sulla trasparenza del processo.

Secondo alcuni video finiti nelle mani della polizia in seguito a una denuncia formulata da un esponente del Bjp (dietro segnalazione del collettivo studentesco vicino alla sigla ultranazionalista hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh, Rss), alcuni presenti avrebbero cantato slogan «anti-indiani» come l’impronunciabile «Pakistan zindabad!» («Viva il Pakistan!»).

Il 13 febbraio la polizia – in divisa e in borghese – è entrata nel campus alla ricerca dei giovani sovversivi che hanno osato sfidare la sacralità della nazione indiana, senza che le autorità universitarie – in particolare il nuovo rettore, in carica da un paio di settimane – fosse in grado di, o volesse, opporsi.

In manette è finito Kanhaiya Kumar, presidente del sindacato degli studenti di Jnu e affiliato al collettivo All India Students Association (Aisa, espressione universitaria del Partito comunista marxista-leninista indiano), accusato di cospirazione criminale e sedizione, secondo una legge di epoca coloniale che prevede fino a dieci anni di detenzione.

In India non si condanna per sedizione dal 1947. A Jnu la polizia non entrava dal biennio 1975-77, meglio noto come «Emergency», quando la prima ministra Indira Gandhi sospese la democrazia nel paese inaugurando una breve e violenta dittatura.

La risposta dell’ateneo ha coinvolto migliaia di studenti e gran parte del corpo docenti, uniti nel denunciare l’avanzata – senza precedenti nella storia recente del paese – del braccio della legge, guidato dal governo a trazione ultrainduista, all’interno dell’istituto, in violazione dell’autonomia dell’università: un luogo dove tutte le idee devono poter avere libertà d’espressione, passate al vaglio del pensiero critico degli studenti.

Mentre da giorni gli studenti di Jnu manifestano pacificamente con sit-in, catene umane e lezioni all’aperto su nazionalismo e laicismo, gran parte dei media nazionali si è accodato alla battaglia di libertà che si sta combattendo nel campus, denunciando la «minaccia alla democrazia» rappresentata dal governo in carica e dalla destra hindu, dei quali si iniziano ad intravedere sempre più nitidamente le ombre di autoritarismo già sfociate in passato in episodi di violenza, linciaggi e minacce nei confronti di tutti i «nemici della nazione»: musulmani, intellettuali, scrittori, giornalisti, sociologi, storici, antropologi, attori, registi, movimenti femministi e per i diritti Lgbt, ong ambientaliste, dalit, tribali, indiani del nordest, kashmiri. E ora, dopo il suicidio di Rohith Vemula nell’università di Hyderabad, anche gli studenti.

Nella giornata di ieri, mentre veniva portato in tribunale per la seconda udienza, Kumar è stato aggredito da un gruppo di attivisti della destra hindu, replicando l’aggressione avvenuta due giorni fa ai danni di professori, studenti e giornalisti ad opera di avvocati vicini al Bjp (compreso un deputato del medesimo partito). Volevano dare una lezione agli «anti-nazionali», a difesa di Madre India e di una nazione nella quale sempre più indiani faticano a riconoscersi.