È legittimo ridurre i contributi pubblici all’editoria in maniera discrezionale, sulla base delle valutazioni politiche contingenti del governo in carica? Se la domanda venisse posta al sottosegretario Crimi, la risposta sarebbe prevedibile, anzi è già scritta nella legge di bilancio 2019 che riduce i contributi all’editoria fino a cancellarli del tutto entro tre anni. Ma a rispondere sarà adesso la Corte costituzionale, davanti alla quale stamattina arriva a conclusione una vicenda cominciata oltre quattro anni fa davanti al Tar della Sicilia per iniziativa di un piccolo editore di Catania, non immune da qualche incidente legato alla riscossione dei fondi pubblici, che si carica di un interesse generale.

Il pluralismo informativo, e lo stesso rispetto dell’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di stampa, sono comprimili e fino a che punto per (asserite) esigenze di bilancio? Alla risposta che dovranno dare i giudici delle leggi guarda con attenzione anche il manifesto, la cui sopravvivenza è messa a rischio dalla progressiva cancellazione dei contributi decisa dal governo e dal sottosegretario Crimi.

Ediservice, società editrice del Quotidiano di Sicilia, nel 2014 si vide quasi dimezzare (-44%) i contributi pubblici rispetto a quelli ai quali aveva teoricamente diritto sulla base della legge, che prevedeva allora – per chi ne avesse diritto – la copertura del 50% dei costi del personale e di una somma fissa per ogni copia venduta. Una perdita di quasi 600mila euro, tale da mettere a rischio la prosecuzione dell’attività. Una norma del 2012 aveva infatti previsto che in caso di stanziamento insufficiente da parte della presidenza del Consiglio (che gestisce il fondo per il pluralismo) doveva operarsi una riduzione percentuale uguale per tutti i beneficiari. Anche il manifesto subì quel taglio. Ma l’editore di Catania si rivolse al giudice amministrativo prima e a quello ordinario poi per chiedere che venissero penalizzate di più altre testate, più grandi e dunque più solide. Contestava perciò il taglio lineare chiamando a giudizio sia la presidenza del Consiglio che altri giornali titolari del finanziamento pubblico. Ma nell’ordinanza del 2017 con la quale il giudice monocratico di Catania Viviana di Gesu ha ritenuto «non manifestamente infondate» le questioni di costituzionalità sollevate contro i decreti legge che, succedendosi, hanno imposto il taglio, gli elementi della lite tra giornali sono completamente caduti. Tant’è che stamattina nell’udienza pubblica in Corte costituzionale chiederanno di costituirsi ad adiuvandum del ricorrente principale sia la Federazione italiana liberi editori (rappresentata dal professor Luciani) che l’Avvenire (rappresentato dall’avvocato Cociancich che nella scorsa legislatura da senatore del Pd è stato relatore della riforma del settore).

Nell’ordinanza di rimessione davanti alla Corte, la giudice di Catania ricorda che i contributi pubblici all’editoria sono passati dagli originari 197 miliardi di lire del 1981 (circa 100mila euro) a meno della metà trent’anni dopo. E trattandosi di un contributo erogato dopo la chiusura del bilancio annuale al quale si riferisce (perché si calcola sulla base delle spese) le imprese editoriali dovrebbero poter contare su un «legittimo affidamento» che è principio tutelato tanto dalla Costituzione quanto dal diritto europeo. «Il sostegno all’editoria di fatto è stato posto alla mercé del governo», si legge nell’ordinanza, quando invece «con il tempo ha assunto un ruolo fondamentale per il nostro sistema democratico, quale espressa garanzia del pluralismo e del diritto alla qualità dell’informazione». È stata proprio la Corte costituzionale, del resto, a stabilire (sentenza 826 del 1988) che «il pluralismo si manifesta … nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative».

Nella memoria depositata in difesa, invece, l’avvocatura dello stato su input della presidenza del Consiglio attuale (il mandato è firmato Giorgetti) sostiene che «è pacifico che anche la tutela di interessi di rilevanza costituzionale deve essere assicurata in un quadro di compatibilità con le risorse economiche concretamente disponibili». Mentre secondo la giudice di Catania «l’attribuzione al governo della facoltà di determinare in concreto l’ammontare dei contributi può condurre a una finalità opposta a quella propugnata dall’articolo 21 della Costituzione, ponendo fuori dal settore una pluralità di imprese». Secondo i difensori della Ediservice (l’avvocato Scuderi e l’avvocata Leone), infine, accettando il principio che le riduzioni del fondo per il pluralismo sono sempre lecite «si finirebbe per legittimare, di riduzione in riduzione, l’integrale annullamento del contributo, con il venir meno della minima tutela degli interessi, di natura generale e di rango anche costituzionale, alla quale il contributo è finalizzato». Quattro anni fa poteva sembrare un discorso per assurdo. Oggi «l’integrale annullamento» del fondo è previsto per legge. Ragione per cui la decisione dei giudici costituzionali – arriverà nelle prossime settimane – è molto attesa.