Altro che accordo sui contratti: il testo che verrà varato domani dagli esecutivi unitari di Cgil, Cisl e Uil, e che nell’intento del sindacato vorrebbe rinnovare le relazioni industriali, ha davanti a sé una strada più che in salita. E non basterebbe il più forte dei propulsori per farlo arrivare nella mente e nel cuore degli imprenditori. Che hanno scelto di percorrere una strada del tutto opposta: lo hanno spiegato con molta concretezza ieri, sul tavolo degli alimentaristi, bruscamente interrotto perché le visioni delle controparti sono inconciliabili. In soldoni: le organizzazioni dei lavoratori chiedono che gli aumenti si concentrino sui minimi del contratto nazionale, in modo che vengano erogati a tutti, mentre la Confindustria e le sue associate intendono disperderli e diluirli in diversi rivoli, altre voci della busta paga, meno costose per le aziende ma soprattutto in perdita per i dipendenti.

«No al modello Cgil-Cisl-Uil»

Se per i chimici la firma era arrivata (ma sacrificando gli aumenti per il 2016, e spalmandoli sugli anni successivi), il primo segnale di stop alle richieste del sindacato è arrivato nella trattativa – oggi decisamente in salita – dei metalmeccanici. E che gli industriali guardino a tutt’altro modello rispetto a quello tracciato dai sindacati – che pure si sono sforzati di valorizzare il secondo livello di contrattazione, oltre ad aprire alla «partecipazione» (anche finanziaria) dei lavoratori all’impresa – lo ha confermato un’intervista di Fabio Storchi, presidente di Federmeccanica, a Repubblica.

Sulla contrattazione decentrata, spiega Storchi, «non siamo assolutamente sulla stessa linea» dei sindacati. «La nostra proposta prevede a livello nazionale solo minimi di garanzia. Chi sta sotto ha diritto a un’erogazione retributiva, chi sta sopra no, e riceverà solo erogazione sotto forma di welfare, quote aggiuntive di previdenza complementare, una polizza sanitaria estesa ai membri del nucleo familiare, il diritto alla formazione».

I sindacati pensano di ancorare le richieste di aumento non più all’inflazione, ma al Pil di settore: il concetto è, insomma, se il settore ha prodotto un 2% in più, qualcosa devi redistribuire. Ma anche qui, è un niet: «Sicuramente non condividiamo l’idea di una dinamica retributiva a livello nazionale che prevede erogazioni salariali agganciate a indici macroeconomici. Noi non siamo d’accordo – dice Storchi – Federmeccanica ha proposto uno spostamento del baricentro salariale nei luoghi reali della produzione e uno spostamento significativo di risorse verso il welfare».

Lo stesso Storchi ammette che la quota di lavoratori che avrebbe diritto a un aumento con la proposta di Federmeccanica sarebbe «circa il 5% della categoria». Perché i sindacati dovrebbero approvare uno schema simile? «Perché la moneta del welfare è molto più pesante. Dieci euro indirizzati all’incremento della retribuzione netta rappresentano un costo di 25 euro per le imprese: dieci euro indirizzati al welfare, invece, costano alle imprese undici grazie alle agevolazioni previste dall’ultima legge di Stabilità. Nella contrattazione aziendale, non territoriale, vanno agganciati gli incrementi retributivi all’andamento della produttività». Quindi via alle polizze e alla sanità complementare, ma poca ciccia in busta paga.

I meccanici e il dopo Squinzi

La linea dura di cui si fanno portavoce gli industriali metalmeccanici potrebbe peraltro pesare nella corsa al successore di Giorgio Squinzi alla guida di Confindustria, che verrà eletto all’Assemblea di maggio. Un percorso di completa rivoluzione del modello – con un depotenziamento del contratto nazionale – che è stato scelto anche da Federalimentare al tavolo di ieri.

Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil, era in trattativa e spiega che i sindacati hanno chiesto di «mantenere l’autorità salariale del contratto nazionale». Cioè «gli aumenti devono andare sui minimi salariali», con la proposta di un contratto della durata di quattro anni, ma che erogasse già dal 2016, e che come parametro individua il Pil di settore. «La crisi c’è stata per tutti – prosegue Crogi – ma sull’export ad esempio le imprese alimentari sono andate bene: perché non redistribuire sul lavoro, visto anche che dal governo sono arrivati sgravi su Irap e assunzioni?».

Ma il no delle imprese è stato netto: fine degli scatti di anzianità, congelamento del premio di produzione, gli aumenti distribuiti solo in parte sui minimi, e ripartiti invece sugli Edr (elementi distinti della retribuzione) che però hanno 12 e non 14 mensilità, non incidono sulla formazione del Tfr e sul montante salariale per le maggiorazioni. Insomma, «così risparmierebbe l’azienda e ci perderebbe chi lavora», dice Crogi.

Andrà meglio per il secondo livello? Difficile, visto che Federalimentare, spiega la segretaria Flai Cgil, ha chiesto che si faccia sì, ma a condizione di «costi invariati per le aziende». No anche all’inclusività per la sicurezza, alla clausola sociale per gli appalti, e a una regolazione del Jobs Act sui licenziamenti collettivi.

«Del tutto incomprensibile, un abbandono strumentale del tavolo da parte del sindacato», commenta il vicepresidente di Federalimentare, Leonardo Colavita. «Ha continuato a interessarsi solo agli aumenti salariali indifferenziati, slegati da qualsiasi parametro di produttività, pretendendo di parlare solo di euro in più in busta paga e non di welfare o di aumento di efficienza e di creazione di ricchezza. La ciliegina sulla torta è stata l’ulteriore, rinnovata, richiesta di deroga al Jobs Act». Ma il Jobs Act «è l’unico vero strumento di cambiamento delle regole di questo Paese a cui l’industria alimentare non rinuncerà mai».

Uno strumento che piace a tutte le imprese, e infatti nel nuovo braccio di ferro sui contratti, molti sono disposti a scommettere che il governo Renzi, come è già accaduto nelle ultime partite, sosterrà gli industriali.