Dare un volto ai numeri è sempre un’operazione rischiosa, ed è quello che cerca di fare il centro studi della Cgia di Mestre che ieri ha diffuso una sorta di indetikit dei lavoratori precari in Italia e in Europa. I nostri sono giovani (15-34 anni), in maggior parte meridionali e lavorano soprattutto in settori come il turismo e l’agricoltura i contrattualizzati a tempo determinato, una delle tipologie di rapporto di lavoro che si sta diffondendo sempre più in Italia e su cui il governo giallo-verde vuole mettere mano con il decreto 87 del 12 luglio, ribattezzato «decreto dignità», che da domani sbarca in Senato per l’ultimo e periglioso passaggio prima della conversione in legge.

Alla vigilia dell’avvio della discussione a Palazzo Madama, dove ad attendere il decreto ci saranno oltre 700 emendamenti – tanto che hanno iniziato a girare voci di «ostruzionismo» e di un possibile ricorso alla fiducia da parte di Di Maio, anche se il presidente della commissione Finanze Alberto Bagnai tende a escludere ambedue le evenienze – arrivano i dati del centro studi della più importante associazione di artigiani e piccole imprese venete, la Cgia appunto. Il rapporto – non proprio neutrale, visto il can can delle organizzazioni datoriali contro lo stravolgimento dell’impianto Poletti-Jobs act – fa notare che l’incidenza dei contratti a termine sul totale dei dipendenti occupati in Italia è un punto in meno della media dei Paesi dell’Eurozona (16,2 %).

Analizzando i dati 2017 la nostra quota è del 15,4 per cento degli occupati, ma in Francia non stanno meglio (18 per cento), nei Paesi bassi neppure (21,8 per cento), molto peggio in Spagna (26,6 per cento) e soltanto in Germania l’incidenza è inferiore (12,8 per cento). Ergo, dice la Cgia, la precarietà dipende dalla congiuntura economica e «per aumentare il numero dei lavoratori a tempo indeterminato bisogna tornare a crescere a livelli superiori al 2 per cento», dice il segretario Renato Mason intendendo il tasso di crescita ottimale del Pil.
La realtà è però un pochino più complessa. La Spagna ha subìto una devastante riforma del mercato del lavoro già negli anni Novanta e da allora ha sempre mantenuto una percentuale molto alta di lavoro a tempo deteminato , fino a coprire in questa tipologia anche un terzo della sua forza lavoro e comunque con i tassi più alti nel novero delle grandi nazioni europee.

Negli ultimi anni ci sono state riforme del mercato del lavoro in 13 di 17 Paesi dell’Eurozona. E tutte queste riforme sono andate nella direzione di una decentralizzazione della contrattazione collettiva e di un allentamento delle regolamentazione del lavoro. Ciò, quando nel 2008 è arrivata la crisi, ha reso più facile ai datori di lavoro espellere i lavoratori già precarizzati e iper flessibili. Nello stesso periodo sono state messe in campo riforme delle pensioni e degli ammortizzatori sociali, incluso i sussidi di disoccupazione, in vari altri Paesi oltre l’Italia: in Francia, Belgio, Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Grecia. Con riflessi sulla precarizzazione della domanda di lavoro.

Secondo i grafici e le analisi statistiche della fondazione Adapt da noi dopo il 2001, quando il contratto a termine è stato liberalizzato, fino al 2004 la sua quota è rimasta stabile, subendo solo una lieve crescita negli anni precedenti alla crisi. É tra il 2014 e il 2017 che arriva il boom degli occupati a scadenza, cioè successivamente al decreto Poletti (2014), antesignano del Jobs act. Il trend italiano resta quello più in ascesa e anche nel primo trimestre di quest’anno i contratti a tempo determinato sono cresciti di 69 mila unità, oltrepassando in toto i tre milioni di lavoratori, con un + 2% nei primi sei mesi del 2018 rispetto al 2017 (dati provvisori). Ancor più allarmante è il dato sul monte ore lavorato: è diminuito rispetto a dieci anni fa del 6%, segno che i contratti si sono sempre più ridotti in termini di tempo. Lo stesso Mason dice che «gli investimenti pubblici sono scesi a livelli inaccettabili».