Susanna Camusso, il movimento femminista «Non una di meno» chiama allo sciopero generale tutte le donne su una piattaforma molto avanzata. Sul territorio alcune categorie della Cgil – Funzione Pubblica (Fp) e Lavoratori conoscenza (Flc) di Roma e Lazio – hanno aderito, non voi come confederazione. Come valuta queste adesioni?
Le valuto positivamente, il processo sta crescendo, non ha ancora una dimensione generale ma sta crescendo e va accompagnato.

Crede possibile che l’anno prossimo la Cgil possa aderire allo sciopero per l’8 marzo?
Abbiamo ragionato più volte sul tema. Lo sciopero generale è l’arma sindacale per eccellenza e quindi il suo utilizzo va soppesato anche in relazione all’efficacia. Al momento non ci sembra maturo, ci sarebbero aspettative di misurazione dell’adesione che vanno tenute in conto. È sempre difficile mettere date ma di certo ci impegneremo perché il movimento cresca e si rafforzi.

Lei nei mesi prima del congresso della Cgil specie con l’attivo nazionale «Belle ciao» del 6 ottobre, ha spinto sull’argomento della contrattazione di genere. Ci spiega meglio i contenuti?
Per un sindacato la contrattazione è lo strumento principale, quello con cui si conquistano diritti e si incide a livello di organizzazione del lavoro. C’è un tema centrale che è il tempo. Lì avviene la discriminazione rispetto agli uomini, sia rispetto alla carriera che alla formazione. La discriminazione deriva dalla disponibilità maschile ad essere presenti e a fare straordinari, mentre le donne che, lavorano più degli uomini e sono pagate meno, svolgono un doppio lavoro.

In questa luce l’argomento «conciliazione dei tempi di vita» come si applica?
La conciliazione dei tempi rischia di diventare un “ghetto” se non viene prevista anche per gli uomini, che devono condividere maggiormente il lavoro di cura dei figli e degli anziani. O anche se la conciliazione dei tempi diventa lo strumento per costringerle ad un part time involontario.

Siete già riusciti ad introdurre la contrattazione di genere in accordi già firmati a livello aziendale o nazionale?
Nel contratto degli alimentaristi e in alcuni delle funzioni pubbliche rispetto alla contrattazione di genere qualche risultato è stato raggiunto e sottoscritto. Ci sono segnali che riguardano in particolare l’organizzazione del lavoro e la formazione. Sotto questo punto di vista ci troviamo davanti ad una stagione positiva. Parallelamente all’aspetto contrattuale servono, però, leggi che favoriscano una reale parità. Basterebbe, per esempio, partire dall’applicazione della legislazione vigente che prevede l’obbligo per ogni azienda di predisporre un rapporto di genere. Disposizione che, invece, rimane lettera morta rendendo difficile anche redigere statistiche sul tema della parità. I pochi dati che abbiamo ci dicono, però, che il tasso di abbandono del lavoro dopo la maternità non è cambiato nel tempo. Oltre alle norme servono, dunque, investimenti a partire dal cosiddetto «zero – sei anni» per costruire nidi e scuole materne – pubblici e non i costosissimi privati -. E servono più risorse al fondo per l’autosufficienza affinché il lavoro di cura non ricada tutto sulle donne. Ne gioverebbe anche il tasso di natalità, che come è ormai noto, è strettamente legato al tasso di occupazione femminile: nei paesi dove lavorano più donne si fanno più figli, non il contrario. Tutti provvedimenti che renderebbero possibile superare l’attuale segregazione del lavoro femminile.

A livello legislativo invece la Lega spinge per un nuovo medioevo a partire dal disegno di legge Pillon. Con il M5S che delega al parlamento.
Siamo davanti ad un arretramento spaventoso che parte dal linguaggio e arriva ai diritti civili fondamentali. Si rispolvera il modello di famiglia indissolubile arrivando, come nel caso del Ddl Pillon, a violare la convenzione di Istanbul. Una colpevole sottovalutazione della violenza contro le donne fatta di abusi psicologici oltre che fisici, ignorando le esigenze dei figli che vengono trattati come pacchi dipendenti da tempi ed esigenze dei genitori.

Lei ha attraversato vari periodi del movimento femminista in questi decenni e fu protagonista di «Se non ora quando» ai tempi delle «cene eleganti» di Berlusconi. Quale evoluzione vede? Come giudica questa nuova radicalità del movimento?
Innanzitutto noto che le donne sono a capo di moltissimi movimenti di protesta in tutto il mondo. La vivacità, la radicalità degli obiettivi è figlia della storia e della novità di non aver accettato il modello culturale dominante ai tempi di Berlusconi. E’ poi importante che durante questi anni di crisi le donne si siano rifiutate di accettare che l’argomento femminista passasse in secondo piano rispetto a quello economico. Abbiamo lottato perché fosse un tema generale e per questo oggi è possibile una nuova stagione di protagonismo femminile alla quale si risponde con un populismo che è fortemente maschile e autoritario, con un linguaggio violento e morboso. Vedo donne a capo di movimenti con una visione lungimirante del mondo e lo si vede anche sul tema ambientale.

Lei quindi è ottimista per il futuro?
Lo sono per la straordinaria partecipazione femminile che ho visto in giro per il mondo pur con tutte le contraddizioni del caso. Qui in Italia siamo certamente in ritardo, ricordo, però, che 10 anni fa i giornali di destra scrivevano spesso: “Dove sono finite le femministe?”. Beh, ora non lo scrivono più.